23 marzo, dieci anni dopo

 In POLITICA

Oggi sono dieci anni esatti da quando insieme ad altri tre milioni e mezzo di persone partecipavo alla manifestazione indetta dalla CGIL di Sergio Cofferati al Circo Massimo. A dirla tutta arrivai in moto molto lontano dal Palatino (tanta era la folla) e dopo un po’ me ne tornai a casa ad ascoltare l’allora Segretario Generale in televisione.

Dopo un decennio siamo di nuovo qui a parlare di articolo 18, di licenziamenti facili, di reintegro, di diritti, di riforma del mercato del lavoro.

Ma questa Italia del 2012 è la stessa del 2002? Interrogativo retorico, ovviamente!

Ha senso una grande manifestazione di massa come quella di dieci anni fa?

Parteciperei a quella manifestazione?

Confesso che non lo so: circa sei mesi dopo quel 23 marzo venivo contattato dalle Risorse Umane dell’azienda dove lavoravo al tempo, Ipse 2000, operatore UMTS mai nato, abortito nell’autunno del 2011, e mi fecero una proposta per andare via. Accettai e me ne andai.

Tecnicamente non era un licenziamento ma sono state delle dimissioni incentivate, tanto che nell’ultima busta paga che chiudeva il mio rapporto di lavoro la voce economica di indennizzo veniva proprio chiamata così: incentivo all’esodo. Il primo esponente sindacale che vidi all’epoca fu alla fine di ottobre, alla sede dell’Unione Industriali di Roma (all’epoca in Via Po, poco distante dal mio posto di lavoro attuale) quando firmammo, con l’azienda e alla presenza delle parti sociali, il verbale di conciliazione che sollevava l’azienda da qualunque pretesa io potessi far valere in sede giudiziaria in cambio di questo incentivo. Ma dov’erano i sindacati quando le pressioni dell’azienda e dei dirigenti (quelli rimasti!) erano fortissime affinché si accettasse la proposta economica e si evitasse tutta la procedura – che poi fu messa in atto per gli ultimi dipendenti – per il licenziamento collettivo?

Semplicemente non c’erano, perché se da un punto di vista di diritto il sindacato ha il dovere di difendere la parte più debole nel conflitto (il lavoratore) nella pratica  ha più badato ai numeri, ai macro-numeri, alle grandi aziende, e non ai piccoli esempi o ai casi individuali.

La cosa più surreale adesso è che anche il Governo dei Professori è ossessionato solo dai numeri  e ragiona come se si fosse in un’aula accademica e non in una società, quella italiana, complessa, con molte infiltrazioni di corruzione e malavita, con una capitalismo inesistente e basato su logiche padronali e familiari, con grandi gruppi bancari che sono più occupati nelle loro speculazioni finanziarie che nell’elargire il credito a famiglie ed imprese, con la raccomandazione politica, sindacale e religiosa come step indispensabile per fare una decente carriera.

La semplificazione che fa la CGIL parlando di licenziamenti facili in realtà non è una modo strumentale per esprimere il dissenso per la mancanza della reintegra riguardo ai cosiddetti licenziamenti economici. È la pura e semplice visione di ciò che avverrà in futuro per il semplice fatto che nessuno ovviamente si sognerà più di fare licenziamenti individuali perché un operaio ha fatto la pipì sulla macchina dell’amministratore delegato, ma troverà sempre un escamotage per licenziare economicamente e il giudice del lavoro non avrà più l’alternativa: indennizzo.

Ora io non voglio demonizzare l’istituto dell’indennizzo ma non comprendo come questo possa funzionare nel paese dei furbi. D’altronde con la scusa del costo del lavoro le aziende hanno sfruttato la normativa sui contratti atipici e hanno spinto all’inverosimile la flessibilità in entrata verso la precarietà. Non si comprende allora quale sia la necessità di provvedimenti legislativi per stabilizzare i contratti a tempo determinato: basta annullarli. Se sono libero di licenziare, perché al più mi costerà 27 mensilità (cioè a conti fatti un anno di costo del lavoro), che senso ha mantenere mille contratti senza tutele sociali (che comunque sono a carico dello Stato)? Tanto vale semplificare. Basta un contratto, una lettera o anche una stretta di mano!

Inoltre se fornisci all’azienda la possibilità di licenziare individualmente, a proprio arbitrio, quali sono le misure in atto per far sì che la gente trovi un altro lavoro nell’anno in cui l’indennizzo ottenuto riesce a sostenere le proprie esigenze?

E ancora: le banche adesso non erogano mutui nemmeno sotto tortura se non si porta a garanzia il Colosseo (potendolo). Erogheranno ancora mutui (o anche prestiti personali) se non si avrà la busta paga?

E quali capitalisti abbiamo nel nostro Paese per creare occupazione in maniera tale che la flessibilità in uscita si traduca in una facilità di entrata nel mondo del lavoro?

Dove sono i venture capitalist in questo Paese che rischiano denaro per favorire le migliori start-up senza che queste corrano all’estero e specialmente nella Silicon Valley?

Io come ho più volte detto non credo ai totem né ai tabernacoli: penso infatti che se la legislazione sull’articolo 18 restasse immutata accdadrebbe semplicemente che fra altri dieci anni il numero degli addetti coperti da quella tutela sarebbe ancora più basso, e allora francamente la questione sarebbe più di lana caprina che di reale efficacia economica. Quello che serve non è sapere se è meglio farlo alla tedesca, all’americana, alla danese, alla francese. Il lavoro non è una pietanza da cucinare come meglio si crede. È piuttosto l’ingrediente necessario – insieme alle altre componenti della vita di ciascuno di noi – affinché tutti abbiano una pietanza da cucinare.

Ed è incredibile che in uno scontro così forte fra le forze politiche, economiche e sindacali, la cosa più lapalissiana e dirompente l’abbia detta un prelato, Mons. Bregantini, Presidente della Commissione per il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, quando ha affermato che il lavoro (e quindi il lavoratore) non è una merce, prontamente appoggiato dai vertici dell’organizzazione dei Vescovi, nel comunicato qui riportato:

La dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale

Non riesco a trovare frase più di sinistra di questa espressa dal portavoce di Bagnasco, Mons. Domenico Pompili.

Ancora una volta quindi il problema che si pone è: qual è la risposta di sinistra alla crisi economica ed occupazionale del nostro Paese? Perché è ormai chiaro che l’esperienza tecnica al Governo fra un po’ dovrà finire e la Politica deve tornare a essere centrale nel Governo del Paese. Non perché Monti non sia stato eletto: le maggioranze si fanno in Parlamento e se Monti ha l’appoggio della maggioranza ha tutto il diritto, oltre che il dovere, di governare. Ma è chiaro che i partiti politici devono tornare ad essere luogo di confronto di idee e di proposte di modelli sociali e non come sono diventati nella cosiddetta Seconda Repubblica luoghi di scambio di favori, poltrone e voti.

Dieci anni dopo il Circo Massimo potremo pure scendere nuovamente in piazza per far valer i diritti: ma se questi diritti non valgono per tutti alla fine si chiamano in un altro modo. Privilegi.

p.s. Stavo ascoltando prima Vittorio Sgarbi nell’intervista che ha rilasciato ieri al team di Santoro: è incredibile come quest’uomo quando non fa lo stupido arrogante servo del Cavaliere abbia una capacità enorme di analisi politica e sociale della realtà e di dire cose molto intelligenti. Come ad esempio sul fatto che prima delle persone e della personificazione della politica servono le idee e che i partiti devono tornare a fare i partiti, cioè luoghi di scambio di idee. Abbiamo demonizzato per troppo tempo le ideologie e ci siamo dimenticati delle idee. 

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