Se l’occhio di bue inquadra l’Aniene

 In LIFE

Quando finalmente si spegneranno i riflettori sui risultati elettorali e ciascuno – nei propri limiti – si prenderà le responsabilità che competono, sarebbe il caso che l’occhio di bue della politica tornasse a occuparsi degli ultimi, degli emarginati, di coloro che vivono per quattro spiccioli che noi – dall’alto delle nostre vite più o meno riuscite – lasciamo loro, come compenso per tutti quei lavori che non vogliamo più svolgere.

Chissà se i prossimi neo parlamentari, specialmente quelli del Movimento Cinque Stelle che vedono la rete come il loro naturale luogo di aggregazione e pensano che tutti siano in possesso di una webcam, di un account sui social network e che vivono in un mondo iper connesso, abbiano la percezione di cosa sia vivere ai margini della società e per giunta dovendo lavorare proprio per i padroni delle nuove piantagioni del XXI secolo.

Su la Stampa in edicola oggi e sul sito del quotidiano torinese, Flavia Amabile firma un reportage sulla favela romana: ho vissuto poco più di dieci anni proprio sulle riva alta del secondo fiume di Roma, un po’ più distante dai luoghi filmati dalla giornalista e conservo un ricordo indelebile del mio quartiere.

In quell’angolo di Roma, dove l’Aniene forma un’ansa, prima di gettarsi tra le braccia del suo fratello maggiore all’altezza del Ponte Salario, ho vissuto poco più di un decennio in un piccolo appartamentino che si affacciava proprio sul fiume. Quante volte ho trascorso sabati e domeniche passeggiando per la pista ciclabile, fra carrozzine con neonati, biciclette e ragazzini sui pattini.

La domenica, quando non  ero ancora sposato, ero solito prendere il caffè al bar di un simpatico signore di origine sarda, chiacchierare con lui di Roma e del nostro quartiere, e godermi in panchina, tra il cinguettio degli uccellini (quelli veri, non i tweet!) e il primo sole meraviglioso della primavera romana, la lettura dei quotidiani.

Amo ancora molto il quartiere Espero, dal nome di un cinema che non c’è più e al posto del quale vi è una sala bingo: era e forse ancora lo è una sorta di villaggio, una specie di Notting Hill in salsa capitolina, dove la speciale forma del fiume, la piccola salita della Via Nomentana e la ferrovia metropolitana, ne realizza una sorta di enclave, a due passi da Porta Pia.

Bastava avventurarsi un po’ oltre la scuola elementare, quella stessa scuola dove ho votato un paio di volte, per raggiungere i luoghi della disperazione: sotto il ponte delle Valli, quello che adesso percorro a tutta velocità per tornare a casa, quando spesso nemmeno ho il tempo di volgere uno sguardo al mio piccolo nido del passato, vi erano un po’ di campi coltivati, forse gli ultimi orti cittadini della Capitale e poi cominciavano ad intravedersi gli abissi della disperazione.

Talvolta facendo jogging o percorrendo tutta la pista ciclabile che adesso consente di arrivare sulla Salaria, entrando così direttamente su Villa Ada o costeggiando la tangenziale Est, l’Olimpica, per dirigersi verso Parioli, si intravedevano – specialmente quando il sole riscaldava l’acqua del fiume – uomini lavarsi proprio lì, nell’acqua, come capita nella giungla amazzonica o nei grandi bacini fluviali africani. Eppure siamo a Roma, la capitale d’Italia e della Cristianità, in uno dei sette paesi più ricchi ed industrializzati del mondo.

Prima che proprio vicino al fiume, sotto casa, mi rubassero la bicicletta, spesso andavo in ufficio in bici: se all’andata preferivo la via Nomentana per sbrigarmi prima e arrivare presto sul posto di lavoro, di pomeriggio, specialmente quando le giornate si allungavano e l’ora estiva ci regalava il sole fino alle otto-nove di sera, mi piaceva ritornare attraverso la pista ciclabile. Quante volte mi sono fermato ad osservare gruppi familiari o poveri cristi soli accendersi un fuoco come se fossero al campeggio e riscaldarsi una scodella di fagioli, come i cow-boy del selvaggio West.

Mi piacerebbe conoscere quale sia la posizione che la nuova classe dirigente, che abbiamo appena eletto, ha in merito a questi poveri emarginati: ci fanno comodo, fanno le pulizie nei nostri appartamenti, spesso i loro figli frequentano le nostre scuole, le nostre parrocchie e i nostri oratori, ma per lo Stato, quindi per noi, non esistono: non hanno cittadinanza, non hanno diritti e di conseguenza nemmeno possiamo chiedere loro il dovere di comportarsi da cittadini. Se la posizione di PD e SEL la conosco abbastanza bene, perché storicamente vicino al mondo dell’immigrazione (fu il sindaco Veltroni a istituire i rappresentanti in Consiglio comunale degli immigrati) mi chiedo quale sia la posizione del PDL – che spesso rappresenta gli interessi proprio dei datori di lavoro di queste persone – e del Movimento Cinque Stelle.

Perché ormai che sei stato eletto, che ti ritrovi anche tu parte del Palazzo per quanto ti possa sforzare di essere alieno, hai il dovere nei confronti di chi ti ha votato e di chi non l’ha fatto, di farci conoscere quale sia la ricetta per affrontare il problema degli ultimi: che non è semplicemente un problema economico, affrontabile secondo i canoni del gettito fiscale o del costo sociale. È un problema di civiltà e di umanità. Perché possiamo nasconderci per quanto vogliamo dietro la foglia di fico delle tasse e del lavoro, ma ad un certo punto il problema dell’immigrazione, clandestina o regolare che sia, si pone in tutta la sua durezza.

Negli Stati Uniti siamo stati noi gli stranieri mentre qui – nel nostro Paese – siamo dalla parte di chi deve accogliere o respingere: ecco di fronte alla Bossi-Fini, la folle legge sull’immigrazione che abbiamo, qual è la posizione dei 163 parlamentari pentastellati e dei loro capi extra parlamentari?

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