L’Atzeca, il Bernabeu, il Westfalenstadion e la vita reale

 In POLITICA

Con la straordinaria efficacia del suo stile, Enrico Mentana riporta sulla sua pagina Facebook il pezzo che ha scritto per il numero di Vanity Fair in edicola e che sarà disponibile qui. Lo riprendo:

Insegna qualcosa anche alla disastrata Italia il trionfo di Angela Merkel in Germania? Certo, perché lì si vede quanto vale una leadership percepita al di là delle faziosità di parte. E anche perché la Cancelliera si è conquistata il peso che ha in Europa con la sua capacità di farsi ascoltare, di convincere, di concertare, di decidere. Tutto quello che l’Italia non è mai riuscita a fare in questi anni dolenti, pur vantando la terza economia e la seconda industria del continente. Senza leadership vera, senza capacità di farsi ascoltare non si va da nessuna parte. Ma c’è ovviamente qualcosa di più profondo. Paragoniamo la campagna elettorale appena conclusa in Germania con quella di febbraio da noi: confronto impietoso ma utile. In Italia lo scontro era tra “Smacchiamo il giaguaro” e “Restituiamo l’Imu”, e ho detto tutto. Tra i tedeschi lo scontro è avvenuto sul salario minimo garantito, sulle pensioni sociali, sul minijob (se non sapete cos’è aspettate poche righe). Insomma su temi che non riguardano solo la politica, ma come far funzionare meglio una società e un’economia che già sono in testa alle classifiche continentali. Perché in Germania la disoccupazione è al 5,4%, mentre da noi è al 12,1, e i giovani senza lavoro sono solo il 7,5, contro il39,1 dell’Italia. Dati così divergenti da farci chiedere perché non si studia il modello tedesco, in cui l’età pensionabile è a 67 anni ma le rappresentanze dei lavoratori hanno diritto a posti nei consigli di amministrazione delle aziende grandi e piccole. Il miracolo tedesco poggia anche sui minijob, voluti dieci anni fa dal cancelliere socialdemocratico Schroeder. Attualmente sono quasi 7 milioni e mezzo i contratti di questo tipo, con un massimo di 450 euro al mese. Piccoli lavori sottopagati, ma con un accantonamento previdenziale e un inquadramento ineludibile. Quei 450 euro massimi sono l’unico reddito per due terzi dei lavoratori a minijob: ma intanto così si è tolto terreno alla disoccupazione, anche se la migrazione dai minijob ai posti di lavoro pieni è modesta. Nel nostro paese opulento e appassito, dove ci eravamo inventati per i giovani il mito della “generazione mille euro” forse un uomo di governo che proponesse i minijob alla tedesca verrebbe trattato da partiti e giornali come un provocatore pezzente. Ma in Germania ha funzionato, così come il reddito minimo orario (fissato basso in generale, a 7.89 euro, e poi innalzato categoria per categoria, secondo anche l’accordo tra le parti). Di queste cose si è parlato nella campagna elettorale tedesca. Negli stessi giorni un paese senza capo nè coda come il nostro si arrovellava su come rinviare l’Imu, evitare l’aumento di un punto dell’Iva, accantonare i fondi per cassa integrazione in deroga e esodati, e per di più pagare il debito della Pubblica Amministrazione con le aziende private. Una quadratura del cerchio che tutti sapevano impossibile, a meno di non trovare il petrolio sotto Palazzo Chigi. Invece si è fatto finta di avercela fatta, di esserci riusciti quadrando anche il cerchio degli obblighi europei, col famoso parametro di Maastricht del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Addirittura al vertice del G20 a San Pietroburgo, non sei mesi fa ma il 7 di settembre, Enrico Letta vantava il fatto di essere il premier di un paese non più costretto agli esami di riparazione, osservato speciale dalla comunità internazionale, ed esultava così: “L’Italia non è più dietro la lavagna”. Sappiamo come sta andando in questi giorni, a offuscare quel prematuro entusiasmo. La coperta è troppo corta e il mitico 3% rischia di sfuggirci. In compenso i due italiani su tre che possiedono una casa hanno risparmiato in media 250 euro. Ma in questo paese nessuno si è domandato se davvero l’abolizione della rata Imu sulle prime case fosse la priorità delle priorità, al di là di essere il cardine del programma elettorale di una delle forze “alleate” nell’attuale maggioranza di governo? Domanda non retorica, anche se sono certo di quale sarebbe la risposta di una Frau Merkel italiana. Ma purtroppo non c’è.

Stamattina, Pigi Battista sul Corriere e Massimo Gramellini sulla Stampa hanno posto l’accento entrambi sul sistema elettorale tedesco, perfettibile per carità anche esso, ma che ha portato ad un risultato chiaro, senza frenesia, senza isteria, senza apriscatole, senza compravendita.

Per i soliti smemorati ricordo che il problema dei numeri in Parlamento, nel nostro Paese, si è sempre avuto nella cosiddetta seconda Repubblica, salvo le due volte in cui Silvio Berlusconi ha dominato le elezioni politiche, nel 2001 e nel 2008. Nel 1994 – a dispetto dei propagandisti del PDL o Forza Italia, o come cavolo si vorrà chiamare fra qualche mese se i sondaggi non saranno graditi al Cavaliere – ci furono tre senatori folgorati sulla via di Damasco che assicurarono a Berlusconi il voto di fiducia al suo primo Governo. Nel 1996 l’Ulivo formò un governo soltanto grazie all’accordo di desistenza con Rifondazione e i risultati si videro due anni dopo. Nel 2006, prima legislatura con il Porcellum, Prodi aveva due senatori di maggioranza e contava soltanto su quelli a vita nelle votazioni più importanti. L’attuale legislatura – come noto – è la terza con la porcata e la prima senza una maggioranza uscita dalle urne.

Mentre per noi la stabilità viene scambiata per l’orrendo compromesso, l’inciucio, il terrore di doversi confrontare e confondersi con l’altro, mescolando le proprie esperienze con quelle di un altro gruppo parlamentare, per i tedeschi la stabilità è data dal sistema politico stesso, non dalle regole elettorale.

Se non esce una maggioranza di un certo segno, progressista o conservatore, ecco che i due principali partiti – anziché avviare la campagna acquisti sul modello dello sport nazionale, il calcio – si accordano su un certo programma, preciso, puntuale, e poi governano attuando quel programma, negoziando eventuali cambiamenti, senza mettere in discussione il Paese, l’Alleanza Atlantica, l’Unione Europea, e avendo come stella polare il prestigio della Germania nel mondo.

Il pezzo del direttore del TG la7 ci dice che la Grande Coalizione tedesca è anche figlia di quella campagna elettorale, così come il nostro Governo delle Larghe Intese lo è invece della nostra. Se i tedeschi riescono a sedersi al tavolo delle trattative post-elettorali è perché non affrontano le campagna elettorale in funzione delle balle e delle promesse non mantenibili che ascoltiamo durante la campagna e continuiamo a sentire anche dopo, in una sorta di competizione elettorale permanente.

Siamo da due anni e passa abituati a misurare la salute dei nostri conti pubblici con la parola spread, tanto vituperata da molti nel sistema politico, e non ci rendiamo conto che il differenziale fra la maturità dei due rispettivi corpi elettorali e dei due sistemi politici è di gran lunga più elevato di quello che misura l’affidabilità dei due titoli di stato pluriennali.

 

p.s. Naturalmente per gli appassionati di calcio i tre nomi sul titolo di questo post evocheranno ricordi ed emozioni fortissimi. Peccato che la vita reale – purtroppo – nonostante le tante Italia-Germania a nostro favore dicano impietosamente altro.

 

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