Siamo tutti Juan

 In LIFE
Juan mi aspettava da qualche ora. Era molto emozionato quando la mattina la sua pronipote gli aveva anticipato una visita con una sorpresa dall’Italia. Aveva immaginato tutto: nonostante l’ottantina fosse vicina, la sua lucidità era proverbiale. Aspettava seduto sulla sua poltrona preferita, nel suo salottino in una modesta ma dignitosa casa di La Plata, capitale della Provincia di Buenos Aires a una sessantina di chilometri dalla Capitale Federale.

Aveva vissuto tutta la sua vita laggiù, alla fine del mondo, senza mai dimenticare da dove provenisse, da dove fosse originaria la sua famiglia.

Il padre, quando Juan ancora non era nato, avevo preso la sua famiglia, fra cui il nonno dei miei amici argentini, e li aveva scaraventati dall’altro lato dell’Atlantico, lontanissimo dalla loro Mascali, poco meno di trenta chilometri da Catania.

Lì si erano stabiliti, avevano avuto Juan ed erano riusciti a far crescere socialmente la loro famiglia.

Come ogni essere umano su questa faccia della terra, il motore di ogni cosa non è soltanto la propria sopravvivenza ma anche e forse soprattutto far sì che i propri figli abbiano di più, stiano meglio, non provino le stesse sofferenze provate dalla generazione precedente.

Quando arrivai a casa di Juan fui accolto con un calore che non avevo mai visto fino a quel momento, un calore che soltanto chi ha amici o parenti in un altro continente può capire. Si sedette accanto a me e mi cominciò a parlare. Discutevamo dell’Argentina dei suoi tempi e di quelli dell’epoca, parlavamo della sua famiglia, dei suoi nipoti, dei miei amici e dell’orgoglio che provava perché i Pistorio di Argentina erano riusciti nel loro intento, dopo aver lasciato la Sicilia.

A un certo punto gli chiesi se mi capisse qualora avessi parlato italiano. Mi rispose di no.

Ma lu sicilianu su ruorda, vossia? – gli chiesi cercando anche di immaginare che parlasse un siciliano non proprio contemporaneo al mio. “Picca” – mi rispose, poco. Ma da quel momento mi parlò una sua lingua speciale, fatta di siciliano e castellano, frutto della mescola che ormai era diventato il suo linguaggio.

Era felice Juan.

Quando vedo quei barconi zeppi di gente che arriva sulle coste della mia terra, della mia amata Sicilia, persino sulla spiaggia della Playa dove io, mia sorella e i miei cugini abbiamo imparato a fare i castelli di sabbia e a muovere le prime braccia in acqua già in età neonatale, penso a Juan e alla sua generazione. Penso a coloro che stipati sui transatlantici raggiungevano le coste dei nuovi mondi, dalle Americhe all’Australia, dall’India all’Africa.

Perché questo siamo, specialmente noi italiani, siamo tutti dei migranti, siamo tutti emigrati da qualcosa e verso qualcosa. Che sia un’emigrazione interna, dalle campagne alle città, dal Meridione al Settentrione, dall’Italia all’Europa o al resto del mondo, ciascuno di noi porta in nuce il DNA del migrante, di colui che va dove spera di poter star meglio, dove la sua famiglia possa sopravvivere. In ciascuno di noi c’è l’embrione dell’immigrato, di colui che scommette sulla vita anziché rassegnarsi alla morte.

In ciascuno di noi c’è uno Juan.

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