Finalmente sta per finire

 In POLITICA

È stato un anno moralmente bisestile questo 2013, a dispetto del moto di rivoluzione del nostro pianeta e dei calcoli scientifici per determinarne il giorno di febbraio in più. Abbiamo vissuto un anno particolarmente intenso, specialmente nel nostro Paese che l’anno scorso entrava in campagna elettorale e non ne è ancora uscito, grazie al regalino della doppia maggioranza parlamentare partorito dal Porcellum.

Sicuramente la rinuncia al Soglio di Pietro di Benedetto XVI è stato l’evento storicamente più importante nel mondo, così come la successiva elezione di Bergoglio, primo papa del continente americano, indice di come il cattolicesimo si sia ormai spostato dalla vecchia Europa, dove è cresciuto e prosperato ed è ormai minoritario, al grande Continente americano.

L’anno è cominciato con l’inaugurazione del secondo (e ultimo) mandato di Barack Obama alla Casa Bianca: rimarrà per sempre quella bellissima immagine che vede il Presidente USA attardarsi per ammirare l’enorme folla sul Mall, la spianata davanti al Congresso che conduce fino al Lincoln Memorial, per l’ultima volta da presidente. Dopo le elezioni italiane di febbraio forse è chiaro maggiormente perché è importante avere continuità istituzionale e rappresentativa: in America, per evitare colpi di coda di chiunque, hanno codificato tutto nella Costituzione, riducendo la durata dei mandati dell’esecutivo, rinnovando ogni biennio la Camera, distribuendo le competenze fra i due rami del Congresso e – soprattutto – separando nettamente i poteri dell’Amministratore da quelli del Controllore. A dispetto dei loro grillini stelle e strisce, quel Tea Party che ha rischiato di mangiarsi il GOP, il Partito Repubblicano, alla fine non ha prevalso l’obiettivo dello sfascio totale, nonostante la chiusura di molte attività federali durante l’ostruzionismo folle della destra repubblicana.

Vittorio Zucconi, sul suo blog, ha ricordato due giorni fa questo valore: le istituzioni restano, le persone passano.

Ovunque ma non nel nostro Paese.

In Italia l’ultima istituzione politica, che appare come arroccata a difendere l’interesse nazionale, le istituzioni, la Costituzione, il prestigio internazionale del nostro Paese, è ormai soltanto il Quirinale ed è infatti diventato oggetto degli attacchi più sconsiderati dei due politici più irresponsabili che abbiamo mai avuto nel corso di questa storia repubblicana: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, due uomini provenienti dal mondo dello spettacolo che stanno declinando in modo delirante e farsesco l’Armiamoci e Partite del Duce.

Ma l’imprimatur è sempre quello: comandare, non governare.

A sinistra ci eravamo illusi, forse perché pensavamo che quei grillini accanto a noi, quelli che conoscevamo meglio, che erano nostri amici, mogli e mariti, compagne e compagni, sorelle e fratelli, cugine e cugini, venivano da una storia di sinistra, e non soltanto anti-berlusconiana, sperando che ci si rendesse conto che un dopo Berlusconi comunque ci sarà e lo dovremo costruire.

Ci sbagliavamo: sono stati la dimostrazione che gli opposti estremismi alla fine si toccano sempre e poi finiscono per viaggiare insieme. Così come Fausto Bertinotti non esitò a togliere il proprio consenso al primo Governo Prodi, probabilmente il miglior governo che l’Italia repubblicana abbia mai avuto, diventando inconsapevole (?) alleato di Silvio Berlusconi in nome della presunta purezza della sua sinistra massimalista, mandando in malora il primo governo di sinistra della storia italiana, così Beppe Grillo e la maggioranza dei suoi parlamentari (veri miracolati che con pochi click si sono visti catapultare in Parlamento dopo la straordinaria campagna elettorale del comico genovese) hanno preferito continuare la loro battaglia sugli spiccioli anziché provare a costruire qualcosa. Il rifiuto di qualunque tipo di alleanza (persino quella senza impegno che proponeva Bersani e che li avrebbe posti in posizione di forza al Senato), l’incapacità di comprendere che un governo andasse fatto (funzionano così le democrazie), un’incredibile ignoranza dell’ABC costituzionale sulla separazione dei poteri (pensando che il legislativo debba prevalere sugli altri due, o almeno sull’esecutivo), un continuo buttarla in caciara senza nessuna proposta concreta: il resto è cosa nota. La sconfitta – dopo quella delle urne – anche tra i grandi elettori presidenziali di Pierluigi Bersani, la rielezione di Giorgio Napolitano con il suo cazziatone urbi et orbi, il governo di servizio guidato da Enrico Letta e una continua e permanente campagna elettorale: non soltanto perché in Italia ogni anno si vota almeno una volta, ma anche per l’incredibile pretesa che ogni volta che ci sono “problemi” anziché provare a smussare gli angoli, rimuovere gli ostacoli, cercare soluzioni di compromesso (quello che Obama ad esempio ha fatto in America) con gli avversari, interni ed esterni, si invocano le elezioni anticipate, come se il lavacro delle urne togliesse il marcio che ormai contraddistingue il nostro Paese: marcio che non è soltanto figlio della crisi economica ma è dovuto a una vera e propria crisi culturale e sociale.

Le crisi economiche – ragionavo con un amico l’altra sera – passano: storicamente è sempre stato così e se guardiamo i dati americani, dove il PIL statunitense viaggia a ritmi che noi in UE possiamo soltanto sognare, ne troviamo conferma. In Italia stiamo vivendo una crisi culturale, dove viene fuori la sconfitta della nostra scuola dell’obbligo e dei nostri licei, quella nata e cresciuta attraverso quei docenti che avevano fatto il Sessantotto, e della nostra società che subisce – inevitabilmente – gli effetti di un modello televisivo generalista, fondato dal Cavaliere con le sue tre televisioni e inseguito dal servizio pubblico che – per la maggior parte del tempo – scimmiotta la stessa produzione televisiva del Biscione.

Viviamo il tempo dell’ossessione, dove l’oggetto di tale bramosia è la caccia allo spreco, soprattutto spicciolo, pur di sostenere la nostra tesi del “sono tutti uguali, tutti a casa“, peraltro viatico per chi il vero cambiamento non lo vuole mai. Viviamo il tempo in cui il denaro è diventato sempre di più la misura di tutto: “quanto costa?“, “chi paga?” sono diventate le uniche due domande che sentiamo rivolgere di fronte a qualunque spesa. Persino il viaggio istituzionale della Presidente della Camera Laura Boldrini, accompagnata dal compagno Vittorio Longhi, al memorial in onore del grandissimo Nelson Mandela, è stata l’occasione per l’ennesima, stucchevole e vana diatriba mediatica e politica. Anche questo è il risultato della grande crisi morale del nostro paese. Ma vi immaginate il New York Post o il Washington Times, da destra, attaccare Obama perché ha portato Michelle sull’Air Force One? In realtà è del tutto evidente che la polemica non è stata sugli accompagnatori: né Vittorio Feltri né il pittoresco Paolo Becchi, vero e proprio maître à penser del Movimento Cinque Stelle, hanno sollevato polemiche per Grazia Fregonara, la giornalista del Corriere e moglie del nostro Presidente del Consiglio. In verità l’obiettivo – come spesso negli ultimi sette mesi – è la donna Laura Boldrini, donna prima che politica, donna che interpreta con femminilità e non scimmiottando gli uomini quel potere che noi tristi maschietti non riusciamo né a concepire figuriamoci ad accettare. In più, con il signor Longhi, la Presidente non è nemmeno sposata e ciò – per chi concepisce il regime more uxorio come solo privilegio maschile – è inconcepibile. D’altronde destra ufficiale e destra stellata stanno dando ampia prova di sintonia, a cominciare dalle continue minacce di impeachment per Giorgio Napolitano, minacce che evidentemente sono armi spuntate perché la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato è come la minaccia di dimissioni: o si promuove, come con le dimissioni che si danno, oppure è il solito teatrino, a uso e consumo dei media che rimbalzeranno la notizia fino a quando un’altra cosa avrà suscitato interesse.

Ormai la linea del pudore, l’asticella del buon senso e la misura del ridicolo, credo siano oltrepassate per sempre: il metro di giudizio – su tutto ciò che è pubblico – è ormai la nostra propria convinzione, il nostro personale tornaconto e il nostro punto di vista. 

Manca vision e la dimostrazione più eclatante ce la danno proprio i campioni della protesta, i pentastellati, che sono giorni che stanno tenendo i loro happening notturni davanti al Ministero del Tesoro – fra la gente, direbbero loro, come se i circoli del PD aperti la sera (quello vicino casa mia apre alle 18) non siano frequentati da persone ma da esseri geneticamente modificati – con un lenzuolone dipinto a mo’ di assegno, volendo restituire 2 milioni e mezzo di euro al Fondo per le Piccole e Medie Imprese. Iniziativa lodevole, per carità, quella di mantenere la promessa di restituire parte dei loro stipendi, se non fosse che quella cifra destinata al Fondo per le PMI, di fronte al fatto che queste in Italia superano i cinque milioni, ha lo stesso effetto che si avrebbe se si gettassero i soldi dal balcone: che si fa con 50 centesimi di euro l’anno?

Se i nostri parlamentari del Movimento (nostri perché a Costituzione invariata sono anche i miei che non li ho votati!) avessero avuto vision, anziché dare l’elemosina al fondo PMI avrebbero potuto destinare quella somma ad associazioni benefiche, di lotta alla mafia, di ricerca scientifica, a borse di studio (500 borse da 5000 euro, 1000 borse da 2500 euro, magari sollecitando qualche progetto in linea con le loro cinque lodevoli tematiche originarie ma che sembra abbiano ormai dimenticato sul Sacro Blog), qualunque altra cosa buona delle quali il nostro Paese – a dispetto di gufi e pessimisti professionisti – pullula.

Per aiutare le PMI l’unico strumento che i parlamentari hanno è quello di scrivere buone leggi  e buoni emendamenti. E se non vengono approvati, come spesso loro si lamentano, non è perché gli altri sono brutti e cattivi ma semplicemente perché fare l’opposizione è sì più facile (perché non hai responsabilità!) ma ha un prezzo da pagare (di gratis non c’è nulla nella vita!): che quando le tue iniziative sono apprezzate dalla maggioranza allora troverai i voti, altrimenti no. Senza piagnistei o patetici tweet come quelli che l’On. Giulia Sarti, una delle più giovani e mediaticamente più seguite parlamentari, spesso invia nel mare di internet.

Ed è persino banale il motivo: si chiama democrazia, non complotto.

Ascoltavo giovedì scorso Renato Brunetta chiedere insistentemente a Mariano Ferro, uno dei leader del Movimento dei Forconi, se non fosse vero che egli sia stato candidato in passato prima con Forza Italia e poi come indipendente alle ultime regionali siciliane. L’economista di Forza Italia gli ha fatto osservare che non è mai stato eletto, che non è mai riuscito a tradurre la protesta in voti e che quindi aveva tutto il diritto sì di lamentarsi, protestare, imbracciare i forconi, sollevare l’applauso fragoroso dello studio di Santoro, che nel frattempo si leccava i baffi per l’audience, ma non aveva certo il diritto di pretendere che fosse riconosciuto come rappresentante di tutto il popolo italiano, per di più sparando – tanto per cambiare – contro i giornali di regime quando siamo al paradosso che un presidio pentastellato al ministero, di poche decine di persone (sono testimone oculare, ieri all’ora di pranzo), o i mille che hanno invaso Piazza del Popolo, siano più seguiti, ottenendo persino dirette televisive da La 7 e dai canali All News italiani, di centinaia di metalmeccanici che quando scioperano, perdono soldi e marciano in un corteo quasi non fanno più notizia!

Spesso – nei dibattiti pubblici di questi ultimi tempi – sentiamo citare due articoli della nostra Costituzione: quello relativo alla sovranità popolare – il primo – e quello relativo al ripudio della guerra da parte del nostro Paese, l’undicesimo. Come spesso ha fatto notare in rete l’amico Antonio Romeo, collaboratore sportivo e commentatore assiduo su questo blog, vengono citate sempre le prime parti di tali articoli, mai completamente. Si dimentica quindi – di proposito – che la sovranità è esercitata dal popolo nei limiti e nel rispetto delle leggi e che il ripudio della guerra – come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali – vale di certo ma anche insieme alla seconda parte che consente (all’Italia n.d.b.), in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Ecco perché parlo di crisi culturale e sociale: prendiamo pezzi della Carta e delle leggi che ci fanno comodo, le assembliamo come si faceva con i PC una volta e ci costruiamo il nostro modello di società e di economia, infischiandocene degli altri, della nostra storia, della pace sociale.

È stato l’anno in cui abbiamo sentito dare del guerrafondaio a Barack Obama, per la crisi siriana, con membri del nostro Parlamento che hanno sposato acriticamente la tesi di Putin sul mancato utilizzo delle armi chimiche da parte del regime di Assad, contro ogni evidenza. In nome di un anti-americanismo un po’ vintage, e anche ipocrita di chi poi passa le vacanze estive negli States, abbiamo persino dovuto vedere che chi ha sostenuto l’assenza delle armi chimiche in Siria adesso si scandalizza per il fatto che queste possano arrivare nelle nostre due isole maggiori, dopo l’accordo ONU per lo smantellamento di tali arsenali.

È accaduto un altro attentato in territorio americano, nella stupenda città di Boston, dove è morto anche un bambino che aspettava il suo papà: ho dovuto persino ascoltare – con le mie orecchie – una persona, evidentemente dal quoziente intellettivo pari a quello di una gallina (con il dovuto rispetto per il pennuto), sostenere che ci si doveva indignare per i bambini morti in Iraq a causa dei bombardamenti americani, e non per quel bambino sul rettilineo di arrivo della maratona della città del Massachusetts.

Dall’estate in poi la scena è stata dominata da un tema veramente avvincente: un condannato in via definitiva a un anno di galera può sedere in Parlamento?

La domanda ha avuto una risposta dopo quattro mesi, a fine novembre, quando il Senato della Repubblica chiudeva una stucchevole vicenda che dà la cifra dell’abisso nel quale siamo precipitati, incapaci di espellere spontaneamente un pregiudicato da un aula del Parlamento. Abbiamo sentito parlare di colpo di stato, un golpe assai singolare perché ha garantito comizi, trasmissioni televisive, dibattiti incendiari senza mai concedere la parola ai magistrati che lo avevano effettuato, questo benedetto golpe!

E la mente mi è tornata – inevitabilmente – ai racconti di amici e conoscenti in Argentina, durante una cena politica alla quale partecipai dieci anni fa. Mi raccontarono che durante la dittatura militare, quando dovevano incontrarsi fra loro, lo facevano dentro un bus in movimento, per il timore che il regime scoprisse i capannelli di oppositori, regime evidentemente poco propenso a concedere la diretta televisiva per qualunque iniziativa anti istituzionale ed eversivo come invece è accaduto con Silvio Berlusconi!

Non abbiamo fatto in tempo a inorgoglirci per aver assistito al recupero della Concordia che subito ci siamo vergognati per come si sono litigati il relitto, come i soldati romani con le vesti del Cristo in Croce, a dimostrazione che tra il nostro pessimismo e autolesionismo cosmico e l’esaltazione universale degli americani (che si autodefiniscono la più grande democrazia del mondo! Ma chi ve l’ha detto?) non si riesce a trovare un po’ di misura, una via di mezzo.

Abbiamo assistito alla tragedia di Lampedusa davanti alla quale il nostro Paese ha dato il meglio e il peggio simultaneamente.

Infine di fronte a una sentenza della Corte Costituzionale, che – azzerando le storture del Porcellum – ha di fatto riportato il Paese al punto zero, a quel 1992 quando tutto ebbe inizio con la fine della Prima Repubblica: eppure anche di fronte allo sprone che poteva giungere dalla Consulta ci siamo dovuti sorbire dibattiti, litigi, sit-in, quasi che tutti – alla fine – con il maialino confezionato da Calderoli, che ora per ironia della sorte è diventato un sostenitore del Mattarellum, ci andavano a nozze!

Tutti, vecchi e nuovi! Rottamatori e rottamati!

Perché è sempre più arduo e complicato riuscire ad astrarsi e realizzare programmi e norme per il bene del Paese: prevalgono il proprio tornaconto, il considerarsi unti dal Signore o dal Popolo, il pensare che soltanto noi possiamo salvare la Nazione, in una perenne guerra con un nemico e non una leale competizione con un avversario politico.

Nel frattempo non oso immaginare cosa accadrà se Giorgio Napolitano nei prossimi mesi dovesse finalmente decidere di riposarsi e il Parlamento fosse chiamato a scegliere qualcuno che possa rappresentare tutti, qualcuno che non sia troppo compromesso, che non sia stato toccato dal fango che questa Seconda Repubblica ci ha regalato nel corso di questi venti anni. Una lista di nomi che fa fatica a contarsi sul palmo di una mano.

L’anno che verrà si preannuncia quindi il secondo anno consecutivo di campagna elettorale permanente e dunque si è destinati a ballare parecchio, almeno fino a maggio.

Poi ci saranno i Mondiali di Calcio in Brasile e le priorità in Italia cambieranno: ci sorbiremo di nuovo i leghisti che non tiferanno Italia e tutti ci trasformeremo in Commissari Tecnici, mentre Marco Travaglio e la sua Pravda Quotidiana guferanno affinché i nostri eroi del pallone non vincano nulla in Brasile, nel timore che qualche scandalo venga insabbiato e che non abbiano nessun nemico contro cui scagliarsi. Confidiamo comunque nella fervida fantasia di via Valadier che sia sempre all’altezza e riesca a trasformare il Sindaco di Firenze, ritenuto esageratamente il nuovo Uomo della Provvidenza,  come l’ennesimo affamatore del popolo, di quella gente, che soltanto invece il loro Messia, accompagnato dal loro Battista, potrebbe salvare.

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