Un biglietto di sola andata

 In LIFE

«È che io faccio il più bel lavoro del mondo!» – mi confida quasi sussurrandolo, ben conscia di sapere di essere una privilegiata e che non tutti possono di certo fare quell’affermazione! «Quando sei pagata per leggere, scrivere, studiare e insegnare, il trovarsi in un ambiente perfettamente organizzato ti dà una spinta enorme».

Ho incontrato Stefania Porcelli, l’amica che su queste pagine ci racconta la sua vita al di là del Pond, venerdì scorso in un grazioso locale del quartiere Nomentano a Roma, a due passi dal Comando Generale della Guardia di Finanza. Sono arrivato di corsa in moto, come sempre si fa in questa frenetica capitale italiana: Stefania mi aspettava a un tavolo all’aperto. S’era piazzata lì con il suo PC, eleggendo il caffè a mo’ di studio mobile.

Ci sfottiamo a vicenda.

Lei mi chiama Direttore, dato che ogni volta che pubblica un post ne controllo i tag, i typos (invero inesistenti) e la formattazione. Io la sfotto per questa scelta dell’ufficio mobile.

«Sembri il Papa che concede udienza!».

Smanetta ossessivamente il suo iPhone, ma è giustificata: il suo nipotino minore è ricoverato a Napoli per un intervento e lei è un po’ preoccupata.

«Allora Stefania, come è stato rientrare? Come sono Roma e l’Italia dopo cinque mesi in America?».

«Sempre le stesse, ma sono io che sono cambiata. Stamattina ero al Gemelli per salutare i vecchi colleghi della Cattolica e sono venuta qui in centro in macchina con un amico, come spesso facevo fino sei mesi fa. E anche oggi – come allora – di fronte al traffico sbuffavamo. Come sempre. Ma sono io che sono cambiata: adesso vivo a New York, dove quando c’è un’interruzione del servizio di trasporto pubblico ti avvisano e ti comunicano anche tutto il percorso alternativo, con il risultato che il tempo che impieghi sui mezzi è prevedibile e sempre lo stesso».

io faccio il mestiere più bello del mondo e lì posso farlo in un modo che qui è impensabile

Capisco le parole di Stefania: è la sensazione che si prova quando si rientra a Roma dopo tanto tempo. Non la riconosci e fai fatica ad abituarti.

«Ma com’è vivere in America? Leggendoti e parlandoti, ho come la sensazione che la tua sia un’emigrazione “matura”, consapevole. Senza aspettative esagerate ma con una consapevolezza di una grande occasione professionale da cogliere al volo e un’esperienza umana che pochi possono sperimentare“.

«Sì, è proprio così. Vedi l’America non è il mio “ideale” ma sicuramente per quello che faccio io è molto importante trovarsi in un ambiente che mi è affine. Vedi, Enzo, io faccio il mestiere più bello del mondo e lì posso farlo in un modo che qui è impensabile. Faccio parte della “Harvard dei poveri”, come viene chiamata a New York la mia università, la CUNY. È una università pubblica, l’unica della città che comunque ha una retta di 25.000 dollari. Ma per chi ha una borsa di studio è gratuita. E ha gli standard e i livelli di qualità di Harvard».

Non oso interromperla, se non per prenderla in giro per come ha pronunciato la parola “pubblica“: sembra una italo-americana da generazioni e non da Nusco!

Non ho bisogno di chiederle se laggiù ci sia o meno un modello ISEE che sistematicamente viene falsificato per fregare alle graduatorie scolastiche di qualunque tipo: so già che la risposta è negativa. In America l’evasione fiscale, la truffa ai danni dei contribuenti, è una cosa seria, da galera, mica come da noi che è quasi una medaglia al valore!

Continua il suo racconto:

«La biblioteca della mia università ha a disposizione un universo di libri. E non solo! Hai presente la Public Library sulla Quinta? Quella dove i libri possono essere consultati solo in loco e non in prestito? Ebbene per noi con il tesserino di Ph. D. è concesso il “prestito” e la stessa cosa possiamo fare per tutte le altre università della città, che sono private. Possiamo seguire i loro corsi, possiamo studiare lì. Insomma per chi fa dello studio un mestiere questo ambiente è fantastico».

Parliamo di tante altre cose, della bizzarria della “storia del credito” che non riesci a farti se nessuno te lo fa, il credito; di quello che fa la sera, dei suoi amici, dei suoi parenti americani: mi parla di Mike, suo cugino, al quale ha dedicato un capitolo di un libro (in lingua inglese) che ha cominciato a scrivere. Me l’ha mandato per e-mail qualche giorno prima: molto carino e mi piace il suo stile di life writing, lo scrivere prendendo spunto da episodi reali. Anche in inglese è brava.

Ho fatto un biglietto di sola andata. Così per il prossimo compro il “ritorno” su New York. Perché è lì che per cinque anni io ritorno

Il tempo passa. Parliamo anche di alcune cose che però riguardano il nostro rapporto amicale e non sarebbero di grande interesse per i lettori di questo blog. Sente alcuni amici che devono passare a salutarla (come vi dicevo? il Papa!).

«Fra un po’ devo andare, Stefi. Quando ci rivedremo? Quando torni in Italia?»

«Guarda non lo so. Credo in estate, fra giugno e luglio, ma ancora non so dirti quando di certo»

«Ah! Non hai fatto un biglietto di andata e ritorno?»

«No, stavolta no. Ho fatto un biglietto di sola andata. Così per il prossimo compro il “ritorno” su New York. Perché è lì che per cinque anni io “ritorno”!»

Arrivano i suoi amici: mi sfotte ancora e il suo amico, simpaticissimo, mi saluta con un “Arrivederla, signor Direttore!“.

Ci abbracciamo e ci salutiamo, sperando che in estate le nostre vite si possano incrociare di nuovo nella Capitale e possiamo nuovamente chiacchierare.

Salgo in moto, metto un po’ di musica sull’iPhone e imbocco la Nomentana per dirigermi verso casa. S’è fatto un po’ tardi e il traffico non perdona.

Ripenso alla chiacchierata, a questa ennesima “testa” che il nostro Paese ha lasciato andare via e soprattutto a quel biglietto aereo: un biglietto di sola andata.

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