Mancanza e speranza

 In EAST RIVER

all’epoca dell’emigrazione del cervello, dell’emigrazione scelta con entusiasmo e vissuta con il sollievo di chi proprio non vorrebbe essere nei panni dei colleghi italiani oggi, il cervello non ha alcun rimpianto, ma il cuore ancora non ha trovato la sua pace, e continua ad essere sospeso tra vecchi ed eterni affetti e nuove e preziose occasioni

Qualche tempo fa ho ricevuto un regalo bellissimo. Parole. Parole pensate per me, scritte per me. Ispirate da me.
È arrogante? È troppo? Sì, è troppo, ma è la verità. Le ho tenute con me queste parole, gelosamente. E poi non sapevo se fosse giusto divulgare un documento privato senza il consenso di chi quelle parole le aveva sentite e poi digitate nel corpo di una e-mail che mi ha spalancato una finestra su un campo di emozioni rare.
Adesso ho deciso di renderle pubbliche, belatedely, perché le cose molto belle, come quelle molto brutte, hanno bisogno di tempo per essere elaborate. Non lo faccio per l’immagine di me che ne emerge (complessa, e troppo generosa), ma per il senso che questo piccolo racconto dà di un luogo che nel suo multiculturalismo poteva trovarsi solo a Roma (la mia casa mi manca in questo preciso istante con ferocia). Decido di condividerlo qui perché riguarda molti di noi: all’epoca dell’emigrazione del cervello, dell’emigrazione scelta con entusiasmo e vissuta con il sollievo di chi proprio non vorrebbe essere nei panni dei colleghi italiani oggi, il cervello non ha alcun rimpianto, ma il cuore ancora non ha trovato la sua pace, e continua ad essere sospeso tra vecchi ed eterni affetti e nuove e preziose occasioni.
Lo condivido perché questo pezzo esprime ciò che molti di noi sentono e che in fondo tutta la letteratura esprime: mancanza e speranza. Grazie Giuliano.

Per Stefania (di Giuliano Pascucci)

Sono stato a casa tua.
Gli amici dovevano andare a via delle magnolie, o forse erano i tigli o i gerani. Non ricordo. Comunque lì a due passi da te, e mi è sembrata un’occasione imperdibile per venirti a trovare…
Mi sono fatto lasciare sul vialetto stretto; l’ho percorso con lentezza innaturale, senza riuscire a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcosa non andasse. Rimbalzava, quella sensazione; giocava con me, o forse si prendeva gioco di me, non lo so capire: un oggetto duro e pesante come il metallo, tondo come la biglia di un flipper e inattaccabile, nella sua impenetrabile perfezione che sbatteva contro le sponde del mio corpo pesante mentre continuavo a camminare verso il cortile del condominio.
Il portone era aperto, come succede spesso. Non come in quei palazzi pieni di uomini diffidenti che ti chiedono chi sei e dove stai andando perché non ti hanno mai visto prima.
Mi emoziona la Babele del tuo palazzo caldo, dove gli odori delle spezie più lontane si mescolano alle tante lingue del mondo. È bello che abiti lì, all’ultimo piano di quell’edificio dove la vita brulica, dove le donne si muovono come sciami di insetti industriosi tra piatti di zighinì e pollo al curry.
Butto uno sguardo rapido nella tua cassetta delle lettere, combattuto tra il desiderio di portarti qualcosa che potrebbe essere arrivato dopo che sei rincasata e l’imbarazzo di risultare invadente. Chissà perché mi ritrovo sempre tra questi due continenti. Queste due terre sulle quali non riesco ad atterrare una volta per tutte con entrambi i piedi.
Il gatto dal pelo rossiccio in cui si mescolano i gatti di tutto il mondo è sempre lì, immobile, incurante, sul primo pianerottolo, a ricordarmi che certe cose esistono per sempre. Continuo a salire e ora sento il cuore nelle orecchie, ho un po’ di fiatone: mi succede sempre. Ma ora vedo la tua porta; posso fermarmi.
Resto un po’ ad ascoltare. Non sento niente a parte il mio respiro. Immagino… Mi aprirai in scarpe da ginnastica e tank top da pugile; con la fascia che protegge i capelli dalla fronte leggermente sudata; precedendo di pochi piccoli passi l’odore piacevole e intenso del tuo corpo che mi colpirà subito dopo. Oppure ti vedrò mentre stai per girare la frittata con la mano destra; a sinistra il ricevitore del telefono, schiacciato tra la spalla e l’orecchio, mentre parli con tua madre e tieni in mano le bozze che stai correggendo e che ti tengono in vita.
Ami correggere, perché scorgi il bello ovunque, anche nelle cose brutte. Sei così; tu sei complicata. Non puoi passare direttamente al bello, devi affrontare il brutto. E per questo finisci sempre per lasciarti dietro cose migliori di quando le hai incontrate. Anche le persone.
Un giorno metterò nelle tue mani il mondo, e ti guarderò correggerlo. Sarà bello vedere sulla mappa i nuovi nomi che darai alle terre; vedere i fiumi scorrere in altre e più sapienti direzioni, magari a irrigare deserti dove gli uomini potranno vivere; i nuovi laghi che creerai e le zolle tettoniche che sposterai. Alla fine mi siederò a contemplarlo e so già che ne sarò estasiato.
Serro le dita per bussare. Non so perché, forse semplicemente per via dei tanti gradini, l’inerzia della pallina è aumentata. Ora rimbalza e mi colpisce con forza. Mi sembra di sentirla sul fegato, poi sulla milza. Per un attimo tocca anche il cuore. Non fa male, ma quasi, e ne sento il tonfo. Sento un rumore oltre la porta. È impossibile. Non sei tu. Tu non fai quel suono. E allora mi ricordo che non ci sei. Che sei in America. Ma come ho potuto dimenticarlo?
Ora sono sbigottito, cerco di capire. Mi scorrono veloci nella testa i concetti della psicoanalisi. Forse è una rimozione. Oppure sto diventando psicotico. Ma come ho fatto a non pensarci, per tutta la strada fatta, che non c’eri?
Aprire o non aprire. È questa la domanda? Se apro e non ci sei sarà per colpa mia. D’altro canto, se non apro tu potrai ancora essere lì, magari a lavorare sui quadricipiti, attaccata al bordo del tavolino, oppure potrai essere in qualsiasi altro posto del mondo, ma avrai deciso tu. Perciò non apro e ti lascio libera di decidere e di essere dove vuoi; io, invece, mi giro e scendo le scale trotterellando sulle gambe un po’ rigide. Le rampe vibrano e fanno rumore come quando eravamo bambini e tutto il mio corpo balla, ma la pallina è scomparsa e sono quasi allegro. Mentre scendo mi domando ancora come ho potuto non ricordare e che cosa sia un ricordo. Lungo il vialetto ora sono le immagini della fisica che mi si affollano nel cervello: l’elettrone è una particella o un’onda? Sono così anche le persone e il loro ricordo? Le troviamo in un punto preciso del mondo perché nel cercarle produciamo una perturbazione ambientale che ce le fa trovare proprio lì?
Non ho la risposta, ma salgo di nuovo in macchina e il tepore del riscaldamento acceso mi rivela che sei felice.

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