Ite Palla Est

 In LIFE, SPORT

Non erano trascorse nemmeno ventiquattro ore da una bellissima e commovente trasmissione, condotta da quell’incredibile e meraviglioso uomo che è Alex Zanardi, che improvvisamente un manipolo di bestie – nel senso più dantesco e infernale del termine – si è di nuovo permesso di farlo. Questa sorta di putridi avanzi della società, scampata grazie a un disordine morale ormai patologico e cronico della nostra società al luogo più consono, le patrie galere, ha ancora una volta picconato e ormai anche demolito, forse per sempre, il nostro giocattolo preferito, quello sport che la quasi totalità di noi, bambini e bambine, adolescenti, giovani e meno giovani, abbiamo praticato e spesso lo continuiamo a fare perché ci piace.

L’amore per questo gioco, che in fin dei conti è persino il più semplice di tutti perché basta una palla e non ha bisogno di cesti, reti o mazze, è nella maggior parte di noi spiaggiati sui divani, in attesa del fischio di inizio, direttamente proporzionale alla nostra broccaggine, quella che ci faceva sognare di essere Maradona o Pelé, Platini o Boniek, Zico o l’ottavo re di Roma Falcao, incapaci di rassegnrci alla triste realtà che eravamo – come direbbero a Roma – nemmeno mezza pippa (che non è la Real Cognata dotata di lato B delizioso anche se ultimamente in dubbio di reale tonicità).
Era quindi con questo spirito, da perenne bambino che quando vede un gruppo di ragazzini sui prati si mette in panchina ammirando e partecipando come fosse allo stadio (e talvolta il fratellino di una compagnetta di mia figlia mi chiede il favore di giocare per far numero, ignaro lui che il favore lo sta facendo a me!), ieri sera mi sono accomodato sul divano dopo cena e soprattutto dopo l’ennesimo montaggio di mobili e seggioline Ikea, in questa perenne e continua opera di riammodernamento di appartamenti per cercare di renderli più amati da chi proprio non ci riesce di amare la città di Roma.
A pochi chilometri, saranno cinque o sei di tangenziale, da casa mia andava in scena il consueto delirio che infesta tutte le nostre maggiori manifestazioni calcistiche.
Quanto lontane erano quelle immagini, le prime che vidi nel 1978 quando venni iniziato alle competizioni della Nazionale, con quella partita contro i francesi che ci vide sotto di una rete dopo nemmeno un minuto. Quanto distante Madrid e il presidente Pertini, o le notti messicane trascorse con il mio cugino e compagno di giochi senza perdere nessuna partita del mondiale di Diego (prestazione di resistenza televisiva che ahimè non ho più potuto replicare, complice studi e lavoro!). Quanto sfocate diventano le immagini di Napoli e di Donadoni e Serena che sbagliano i rigori, a cinque giorni dal mio esame di maturità. Quanta incredulità davanti a Baggio e Baresi a Pasadena, nell’assurda fornace californiana di mezzogiorno per compiacere noi, la vecchia Europa davanti ai teleschermi.
E poi la lunga traversata del deserto, dai mondiali di Parigi al trionfo di Berlino.
Mentre ripensavo all’emozione della sera prima e alle stupende semifinali di Champions’ League, che ancora una volta e non è certo un caso hanno visto le nostre squadre fuori dai giochi che contano, a Roma, in una normale serata di primavera, senza troppo caldo né freddo, avvenivano agguati, sparatorie, lanci di petardi e bombe carta piene di chiodi. Non la solita bravata per fare casino, ma per uccidere.
Sicuramente sarà stato più sicuro – per i 65 mila spettatori dell’Olimpico – che la partita di calcio, la scusa ufficiale di questo ennesima battaglia bellica attorno al nostro Pallone, si sia poi disputata ma qual è il senso di una serata come quella, raccontata peraltro in televisione da tre telecronisti completamente nel pallone e incapaci di dire cose sensate!
Non so se si siano resi conto della gravità dei loro racconti, “gli ultras hanno detto che si può giocare“, come se fossero loro – i nuovi capi mafia di questo sport – che possano decidere se si possa giocare o meno e non sia invece il Prefetto, l’autorità delegata del Governo, sentito il Questore, autorità di sicurezza allo stadio, l’unico in grado e con la responsabilità di stabilire se un evento sportivo possa essere disputato o meno: non il Presidente del Consiglio, anche se così poteva sembrare dal vertice sugli spalti come le Pravde nostrane hanno immediatamente scritto sui loro siti; non il Presidente del Senato o quello della Lega Calcio o della Federcalcio: solo il prefetto.
Roma, che nemmeno una settimana prima aveva ripreso il posto che le spetta di diritto nella Storia, ospitando più di un milione di pellegrini per strada, con un ordine pubblico perfetto, ieri ha mostrato l’altra faccia della medaglia di questo nostro disastrato Stivale.
E mentre a poche centinaia di chilometri si moriva per la bomba d’acqua che ha allagato Senigallia e le Marche, sulle strade della Capitale si rischia di morire per bombe che vengono portate allo stadio come una volta io portavo la Bandiera Rossazzurra al Cibali, bandiera cucita dalla mia nonna e con un elefante disegnato da mio padre e ricamato da mia madre. Adesso – se dovessi andare allo stadio e portare mia figlia con me – dovrei prima equipaggiarmi con una tenuta antisommossa e poi noleggiare un blindo, anziché la mia piccola e vecchietta utilitaria.
A questo abbiamo assistito ieri: a una guerra non per i confini, per il gas, per il petrolio o per qualunque altro fattore economico che possa muovere nei conflitti. La guerra di ieri, il clima di ieri, è mossa soltanto dall’idiozia e dalla violenza insita in noi, dall’inesistente educazione al rispetto delle regole, da una totale ignoranza delle massa popolare, ormai priva dei rudimenti culturali che il nostro Paese dovrebbe avere nel proprio DNA.
E ci risparmiassero – politici e intellettuali spesso dediti a darsi di gomito anziché trovarsi frontalmente come accade in tutte le democrazie occidentali – la solita litania della “grande bellezza“.
Inutile che il Premier Matteo Renzi in ogni comizio televisivo (questo sono le interviste televisive a lui e agli altri leader) parli del potenziale della nostra industria culinaria, strizzando l’occhio al suo sponsor e finanziatore Farinetti, fondatore di Eataly, peraltro esercizio commerciale non proprio economico e alla portata di chiunque. Non serve a nulla che il sobillatore di menti Beppe Grillo inneggi alla sua rivoluzione a colpi di elemosina, il reddito di cittadinanza, senza legarlo al frutto del lavoro e del sudore, perché i risultati di chi vive alle spalle degli altri sono sotto gli occhi di tutti e sono plasticamente rappresentati dai quei due energumeni sulle recensione dell’Olimpico. Ed è inutile che il vecchio patriarca del centrodestra, tra un bunga bunga e una visita domiciliare agli anziani, ci illustri che ha ancora molto da fare per la sua rivoluzione liberale.
Non ce n’è bisogno: ha vinto.
La rivoluzione liberale noi l’abbiamo fatta secondo l’interpretazione che Corrado Guzzanti diede della Casa delle Libertà: se in quello sketch il comico romano ironizzava su chi pisciasse sui divani o devastasse ogni cosa in nome della Libertà di fare ciò più gli fosse gradito (“siamo la casa della libertà, ognuno fa come cazzo gli pare” recitava lo slogan), adesso siamo alla realizzazione effettiva di tale programma.
Ognuno fa ciò che vuole, ciascuno vive per sé e chi prova a fare altrimenti si arrangi, purché non rompa i coglioni a chi vuole controllare il giocattolo.
Ecco se poi chiudiamo questo sedicente sport nazionale, per uno, due, cinque anni, anche a tempo indeterminato se serve, non sarebbe male: chi ama il calcio si guarderà comunque in TV la Liga, la Premier League e qualunque altro campionato europeo. Si godrà mondiali ed europei, ma almeno non dovrà subire, oltre al danno morale di vedere sgonfiato il proprio pallone, la beffa che le proprie imposte, quelle pagate con il sudore della fronte, con la fatica quotidiana che Genny ‘a Carogna, capo ultras napoletano, temo non sappia nemmeno cosa sia, non vengano sprecate per salvaguardare uno spettacolo che tale non è.
Pagare le tasse perché Genny e il branco dei suoi simili possa fare quel che cacchio pare a loro francamente mi sembra ormai troppo.
 

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