Il #RefeRenzum

 In POLITICA

Sembrava una follia, una boutade invernale di fine gennaio, buttata lì da Stefania Giannini, segretario di Scelta Civica, in un’intervista al Foglio di Giuliano Ferrara. In effetti pochi commentatori e osservatori avevano colto la grande opportunità che il nostro Paese aveva davanti nel cammino verso la strada della normalità, che era stata tentata – con un forte insuccesso nel 2000 – dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri e segretario uscente del Partito Democratico di Sinistra Massimo D’Alema.  Su queste pagine abbiamo più volte sottolineato come in un sistema Parlamentare, la presa del potere di Matteo Renzi, certamente un po’ sgarbata da un punto di vista istituzionale ma perfettamente legittima da quello costituzionale, avrebbe avvicinato la nostra repubblica parlamentare più a Westminster che al tentativo fallito del governo del premier in Israele.

Quando il segretario del PD ha preteso dunque per sé la guida del governo eravamo in pochi a non essere scandalizzati: vuoi perché troppi sono quelli che si lasciano condizionare dalle dichiarazioni in campagna elettorale, vuoi perché in Italia c’è sempre il timore di intraprendere qualsiasi strada nuova

D’altronde le democrazie moderne hanno bisogno di esecutivi forti e decisionali, trovando le soluzioni costituzionali più idonee per garantire quelli che gli anglosassoni chiamano i “checks & balances“, i pesi e i contrappesi fra i vari poteri.

Quando il segretario del PD ha preteso dunque per sé la guida del governo eravamo in pochi a non essere scandalizzati: vuoi perché troppi sono quelli che si lasciano condizionare dalle dichiarazioni in campagna elettorale – che siano primarie o generali poco importa – assumendo le promesse prima delle urne come una sorta di contratto notarile, vuoi perché in Italia c’è sempre il timore di intraprendere qualsiasi strada nuova. È apparso fin troppo chiaro invece che l’opportunità delle elezioni europee, nelle quali viene chiamato alle urne tutto il corpo elettorale, fosse fin troppo ghiotta per Matteo Renzi per chiedere al Paese quella legittimazione popolare che le urne del suo partito gli avevano già consegnato. Certo, sono passati completamente in secondo piano gli argomenti europei ma questo è il prezzo da pagare per vivere in un Paese che prima era il centro dell’Impero romano adesso è provincia del mondo, a dispetto della retorica che si galvanizza sempre per le promesse  e mai per i fatti.

Così la campagna elettorale per i rappresentanti italiani a Strasburgo si è presto trasformata come un referendum sul governo e sulla persona di Matteo Renzi e sulla sua leadership, lasciando sullo sfondo – assai sfocati – tutti gli argomenti “seri” che si sarebbero potuti e dovuti trattare: la crisi finanziaria, il ruolo della Banca Centrale Europea, l’Unione Politica, la Difesa Comune. E questo referendum Matteo l’ha stravinto e con lui l’intero Partito Democratico, minoranze interne incluse, che trascinate da un animale politico da campagna elettorale, molto più vicino al leone Bill Clinton che al tranquillo Barack Obama, hanno dato prova di grandissima maturità politica nonostante le primarie e la successiva presa del potere di Renzi abbiano stiracchiato un po’ i rapporti interni.

Abbiamo visto una campagna elettorale dove tutti hanno dato una mano, Bersani e Letta compresi, che hanno portato a dei dati francamente incredibili e oltre le più rosee previsioni. Sono tornati sul PD e sulla leadership di Renzi tutti quei voti che i sondaggi davano nel 2011 allo stesso partito prima che il “senso di responsabilità“, dopo l’attacco speculativo e la nascita del Governo Monti, lo aveva mano a mano consumato. Ma se i numeri hanno ancora un senso – e quelli in valore assoluto fanno ancora più impressione perché sono le croci che gli elettori mettono sulla scheda – gli undici milioni di voti presi dal PD sono certamente di grande effetto, ma ciò che colpisce sono l’enorme numero di elettori in fuga dal Movimento Cinque Stelle (oltre due milioni e mezzo) e la fine di Forza Italia e di Silvio Berlusconi.

Aggrappato come a una boa all’idea di un nuovo inizio, di un nuovo vecchio partito come nel 1994, Silvio Berlusconi e la sua nuova vecchia Forza Italia ha ottenuto poco più di quattro milioni e mezzo di voti, quando all’esordio – scheda proporzionale della Camera – ne racimolò oltre otto. Nelle elezioni successive il partito dell’ormai ex Cavaliere ottenne sempre valanghe di voti fino al 2001 quando addirittura portò a casa oltre dieci milioni di voti soltanto sulla scheda proporzionale del Mattarellum.

Se il liberatorio vaffa può essere una scelta quando la rabbia monta di brutto, se all’urlo liberatorio non si affianca la proposta, allora forse qualcosa che non va c’è

Ma la vera sorpresa – specialmente dopo che sondaggi ed exit poll davano numeri assai diversi – è stata che il Movimento Cinque Stelle ha perso oltre due milioni e mezzo di voti (nemmeno sei ottenuti) a fronte dei quasi nove ricevuti in dote lo scorso anno. Un vero e proprio flop, per loro così ossessionati dal famoso boom che il Presidente Napolitano avrebbe dovuto sentire dal Colle, che la dice lunga sia sulla capacità di presa dei “vaffanculo” sull’elettorato medio italiano, sia della strategia comunicativa di Grillo, di Casaleggio e dei più in vista esponenti del partito, Luigi Di Maio – vice presidente della Camera – e Alessandro Di Battista.

Se il liberatorio vaffa può essere una scelta quando la rabbia monta di brutto, se all’urlo liberatorio non si affianca la proposta, allora forse qualcosa che non va c’è. Sì, certo, potremo essere tutti scemi, noi che non votiamo Cinque Stelle, come ha solertemente postato su Facebook qualche esponente, ma quando si perdono in un anno due milioni e mezzo di voti, nonostante la posizione privilegiata di stare all’opposizione di un Governo sui generis, in una tornata elettorale che premia di solito le opposizioni (nel 1984 il PCI sorpassò la DC con il 34,3% dei voti contro il 34%),  forse non è soltanto quella la spiegazione.

C’è che forse alla gente frega pochissimo dei tribunali on line, anzi forse la spaventi un tantino; importa meno del plastico del Castello di Lerici dove gli oppositori, politici e mediatici, sarebbero stati tutti rinchiusi dopo le elezioni; trova assurda una politica basata sull’insulto (proprio necessario quello che dal palco di San Giovanni veniva urlato al Capo dello Stato?): alle persone servono soluzioni ai loro problemi, deputati, senatori, consiglieri che facciano il loro mestiere e riescano a migliorare la qualità delle loro vite.

E forse imparare che la politica è anche saper trovare un compromesso, ragionare con gli altri per far sì che più consenso possibile possa ottenersi sulle scelte concrete. A cosa è servito l’atteggiamento durante le Quirinarie lo scorso anno? Il niet al governo Bersani? I continui attacchi a Giorgio Napolitano fino a chiederne l’impeachment? A nulla, praticamente a nulla. Puoi fregare una volta la gente ma non sempre, potremmo dire parafrasando un vecchio motto americano. Se il Movimento di grillo continuerà su questa strada e avrà i fondi per continuare a fare politica, si attesterà probabilmente intorno al 10-15% ininfluente, inutile, come sono tutti i movimenti di pura protesta e di totale assenza di proposta, come una specie di Movimento Sociale Italiano del terzo millennio.

Perché alla fine alle persone comuni, quelle che si alzano la mattina per andare a lavorare, alla “ggente” non importa che con la stampante 3D in America stampino le dentiere o le canoe presso gli uffici comunali (cosa peraltro falsa, ma fa niente!): importa che chi ricopre una responsabilità di leadership la eserciti per risolvere i problemi, non per complicarli.

Ed è questo che adesso attende Matteo Renzi e l’intero PD: un credito di oltre undici milioni di croci sul suo simbolo porta con sé un’enorme responsabilità sia di fronte alle scelte economiche sia a quelle sulle riforme. Nonostante non mi trovi  spesso d’accordo sulle priorità che l’esecutivo sta affrontando, ritenendo stolte le riforme elettorali e costituzionali, non faccio minimamente fatica a riconoscere nel nostro Capo del Governo una capacità di leadership assoluta, capace di ascoltare anche le istanze della minoranza democratica, come ha mostrato plasticamente a Piazza del Popolo con l’urlo “sciacquatevi la bocca” riferito all’appropriazione immonda oltre che indebita dell’eredità morale di Enrico Berlinguer da parte di Grillo e dei suoi.

Se il centrosinistra si ritrova nella guida di Renzi e ottiene riconoscimento nel Paese per il lavoro finora svolto, diverso appare il discorso per l’alternativa. Congelata la protesta di Grillo, rimane scoperto il campo del centrodestra che dimostra in tutta la sua forza il vero fallimento di Silvio Berlusconi

Infine una riflessione complessiva: se il centrosinistra si ritrova nella guida di Renzi e ottiene riconoscimento nel Paese per il lavoro finora svolto, diverso appare il discorso per l’alternativa. Congelata la protesta di Grillo, rimane scoperto un campo – nel Paese – quello del centrodestra che dimostra in tutta la sua forza il vero fallimento di Silvio Berlusconi: non far sopravvivere a se stesso la propria area politica. In questi venti anni di referendum continuo, pro o contro di lui, a destra non è nata nessuna classe dirigente, nessuna leadership, nessuna idea di una destra moderna e conservatrice, in grado di sedersi al tavolo con i partner europei e sfidarli senza cucù e senza insulti. Con poco più di un milione di voti, riuscendo a stento superare lo sbarramento del 4%, l’esperimento di Angelino Alfano e del suo Nuovo Centrodestra è ancora lontano dal divenire una forza determinante in quella parte dello schieramento. E bisognerà attendere anche i voti di preferenza per meglio quanto peserà Alfano e quanto Casini. E se Giorgia Meloni e i suoi per poco non raggiungono lo sbarramento, cosa che invece la sinistra alternativa riesce a fare (a differenza del 2008 quando non entrò in Parlamento) sono scomparsi invece i partiti di Monti, di Di Pietro e dei Verdi. Sarebbe forse opportuno che anche loro un piccolo esamino di coscienza, magari proporzionalmente allo zero virgola che hanno preso, se lo facciano e comprendano a quale famiglia europea iscriversi.

Con la fine di queste elezioni europee lo sguardo finalmente si potrà di nuovo porre su Bruxelles per capire che tipo di Commissione verrà fuori, anche se appare inevitabile una grande coalizione fra popolari e socialisti. La piccola sconfitta di Angela Merkel in casa è un buon viatico affinché talune politiche di austerità siano finalmente allentate e un po’ di crescita – specialmente al sud del continente – possa essere possibile.

 

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