Si fa presto a dire Germania

 In POLITICA
Assistiamo negli ultimi giorni a un proliferare di dichiarazioni – da molti esponenti politici a partire da Matteo Renzi – sul modello tedesco da perseguire relativamente al mercato del lavoro che tutti vorrebbero – a voce – riformare e che nessuno ha invece il coraggio di affrontare, per far invertire la drammatica crescita della disoccupazione che – specialmente quella giovanile – riempie di angoscia tutte le famiglie italiane.

Non ho le competenze giuslavoriste per esprimere un’opinione completa sul nuovo mercato del lavoro che si vuole importare né possiedo la benché minima fiducia sul fatto che basti questo a far sì che in Italia l’occupazione ritorni a crescere. Osservo però che si tratta del famoso “dito” nella consueta metafora di chi guarda la luna.

Il problema – purtroppo – è che le riforme tedesche hanno funzionato in Germania perché lì vivono i tedeschi. Non voglio apparire esterofilo, almeno non troppo perché un po’ – confesso – lo tendo a essere ultimamente. Tuttavia il tassello della riforma del mercato del lavoro ha senso porlo nei termini in questione soltanto se anche in Italia prende il sopravvento un nuovo modo di concepire la politica e la lotta politica per il potere. E ciò può avvenire soltanto se noi – come Paese – ci diamo una vision, un’immaginazione di come sarà il nostro futuro.

È su questo tema che noi – rispetto ai tedeschi – siamo molto arretrati e non soltanto per la nostra tendenza a vivere come in una perenne campagna elettorale, impegnati più a ricercare consenso – ieri attraverso le TV oggi grazie all’immediatezza di social network con dibattiti a furia di hashtag più o meno azzeccati.

Noi siamo abituati a gestire l’emergenza, l’ultimo minuto: siamo poco avvezzi alla pianificazione e alla programmazione. Prendiamo il caso dei mondiali di calcio giocati in casa nel 1990. Non soltanto abbiamo costruito i nuovi stadi (e rimodernati i vecchi) sul filo di lana, come nostra tradizione che consente – peraltro – la gestione in emergenza degli appalti e la conseguente maggior esposizione ai rischi di corruzione, ma li abbiamo eretti senza nemmeno riflettere su ciò che essi potevano rappresentare come asset strategico del nostro calcio, in un’era nella quale i principali osservatori internazionali classificavano la nostra Serie A come il più bel campionato del mondo, nel quale – ricorderete – le principali star in mutandoni e maglietta sgomitavano per poter partecipare.

Prendete invece i tedeschi: otto anni fa hanno organizzato uno dei mondiali più belli della storia (e non soltanto perché l’abbiamo vinto!), con impianti moderni, fruibili dalle famiglie, in tempo (e questo è scontato essendo appunto teutonici gli organizzatori!), e che rappresentano ora un patrimonio enorme per le squadre della Bundesliga e per la loro competitività nel mondo del pallone.

Ma non solo in Germania: già dal 1982, quando la Spagna cominciò ad affacciarsi sul proscenio dei grandi del mondo, dopo il ripristino della democrazia, i principali impianti del Mundial (anche quello a noi assai caro!) erano di proprietà dei club che ne hanno potuto beneficiare proprio nella programmazione successiva che il movimento calcistico spagnolo ha avuto e che è stato – come tutti i principali campionati – ingrassato dai proventi televisivi.

Tornando alla Germania, quando il cancelliere tedesco Gerard Schroeder, del quale oggi si fa un gran parlare (ultimo Dario Nardella, sindaco di Firenze, oggi sul Foglio di Giuliano Ferrara) come esempio di statista che non tenne conto dell’inevitabile perdita di consenso che avrebbe avuto (e di fatto ebbe) dopo le riforme, propose il patto per una “Germania in movimento” non mise su un sito internet per spiegare la riforma e coinvolgere i cittadini, e non certo perché internet non ci fosse.

Ciò che fu proposto fu invece una vision di una nuova Germania verso la quale tutto il sistema tedesco avrebbe dovuto convergere, coinvolgendo la più vasta platea della rappresentanza, senza cercare il consenso ad ogni costo né tanto meno il populismo spicciolo di rivolgersi direttamente al popolo. Fu così che la Repubblica Federale Tedesca – scossa ancora dai costi della ricostruzione della parte orientale a seguito della caduta del muro di Berlino – riuscì a ripartire. Nelle imprese i lavoratori vennero coinvolti al massimo livello: gli osservatori “liberisti“, oggi fautori dell’abolizione totale dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (peraltro già ampiamente riformato dalla Legge Fornero e in vigore soltanto per i licenziamenti di natura discriminatoria), continuano a perorare tale cancellazione come motore per le nuove assunzioni. Essi però hanno il grave torto di tacere che nella Germania, assunta a modello, le rappresentanze sindacali entrano a far parte del board delle imprese. In altre parole, la gestione delle imprese, persino di quelle più squisitamente familiari (e quindi padronali), viene condivisa anche con i lavoratori delle stesse aziende.

Inoltre la Germania si è data una politica di perseguimento della lunga strada che porta alla sostenibilità ambientale, senza tentennamenti: ciò ha consentito alle imprese di innovarsi, pur essendo perfettamente consci del costo che si aveva nell’immediato della riconversione degli impianti affinché i parametri di Kyoto venissero rispettati, in un mondo globale che non sempre – per le varie lobby in gioco – vedeva di buon auspicio la green economy.

Anche in questo caso – quindi – vi era una vision, la capacità di immaginare un nuovo modello manifatturiero al quale tendere, forzando quindi all’innovazione anche comparti più restii al cambiamento, perché quasi sempre questo non dà ritorni immediati. D’altronde è la stessa politica perseguita dall’Amministrazione Obama negli States, dove sono stati incentivati gli investimenti nell’economia verde che hanno portato a una ripresa della manifattura nell’immenso continente stelle e strisce (caso emblematico è la Apple che per il suo desktop top gamma, il Mac Pro, ha scelto la produzione in casa anziché affidarsi alle fabbriche in Oriente).

Ha la capacità, il nostro Paese, di immaginare una propria destinazione futura, una propria vocazione come sistema-paese, definendo quale caratteristica voler sviluppare del nostro sistema imprenditoriale, quali comparti forzare all’innovazione e quali invece alla riconversione?

Possiamo pure realizzare tutti i siti che vogliamo, più o meno carini, più o meno alla moda come il “Passo dopo Passo” che il governo ha lanciato, con slider gradevoli e colori rilassanti. Ma se non comprendiamo che è tutto il Paese che deve essere coinvolto, a partire dalle rappresentanze sociali, che tutto hanno bisogno tranne che essere derise e quasi criminalizzate come il governo e pezzi della maggioranza quotidianamente fanno per strizzare l’occhio al popolo bue; se non riusciamo a disegnare il modello dell’Italia del prossimo decennio, allora qualunque sforzo, dalla riforma del mercato del lavoro a quella della scuola, dai cambiamenti della giustizia a quelli del fisco, saranno semplicemente inutili e un’altra occasione per uscire dal tunnel sarà stata quindi sprecata.

 

p.s. Congratulazioni al Presidente del Consiglio Renzi per aver posto fine all’annosa questione dei Bronzi di Riace che Vittorio Sgarbi e altri proponevano di trasferire a Milano durante l’Expo. Non so se le opere possano viaggiare o meno, non ne ho le competenze per giudicare. Tuttavia bene ha fatto il Capo del Governo a sottolineare che sono i visitatori dell’esposizione universale che devono muoversi per andare a Reggio Calabria a visitarli. L’evento, che vedrà il nostro Paese in vetrina il prossimo anno, non è soltanto di Milano, né della Lombardia né del nord, ma dell’intera nazione.

 

foto in copertina di Thomas Wolf

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