Strilli e sussurri

 In POLITICA

“Non possiamo permettere che il pensiero politico non sia più autonomo e che la lotta politica si riduca a una mera battaglia tattica per il potere” – afferma più o meno testualmente Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio appartenente al Partito Democratico, ieri pomeriggio alla presentazione del libro di Stefano Fassina, deputato democratico, ex vice ministro dell’Economia del Governo Letta ed ex responsabile economia del PD nella segreteria guidata da Pierluigi Bersani.

Non ho ancora comprato il libro, intitolato “Lavoro e Libertà. La sinistra nella grande transizione” e scritto con Andrea Corti e Roberto Bertoni, ma credo lo farò presto. È stata una serata interessante, moderata da Chiara Geloni, ex direttore della web TV democratica YOUDEM.TV, che ha visto protagonisti, oltre a Fassina e Zingaretti, anche il vescovo ausiliario per l’Urbe Matteo Maria Zuppi, assistente ecclesiastico della Comunità di Sant’Egidio, un uomo molto vicino a quella povertà che la sinistra – storicamente – dovrebbe combattere. Ed è stato proprio il prelato romano a introdurre per primo il libro del deputato del PD, cogliendo l’occasione per commentare la svolta dirompente che dai Palazzi Vaticani si è avuta con l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco. Ha citato l’esortazione apostolica Evangelium Gaudium, prima vera opera dottrinale di questo pontefice dopo la Lumen Fidei firmata a quattro mani con il suo predecessore, Benedetto XVI, e dal quale aveva ereditato l’enorme mole di lavoro, e ha ricordato come il Papa esorti tutti gli uomini a lavorare per la collettività. Soprattutto Mons. Zuppi ha spiegato cosa il Papa pensi del sistema capitalistico, apparentemente uscito vincitore dalla guerra fredda con il socialismo reale dell’Unione Sovietica, ma con all’interno una fragilità intrinseca, quella cioè di realizzare società troppo individualiste ed egoiste: il capitalismo, il diritto alla proprietà privata e il libero mercato sono tutti aspetti positivi – potremmo sintetizzare così il pensiero del Pontefice – ma essi cambiano algebricamente di segno quando perdono la funzione sociale del miglioramento delle condizioni di tutta la collettività.

Che questo Papa stia mettendo a dura prova i laici è fuori di ogni dubbio, visto che persino anticlericali spinti come Alessandro Capriccioli si interrogano sui loro stessi pregiudizi espressi nel marzo 2013. Ma forse la comunicazione e la dottrina di Bergoglio stanno invece devastando talune convinzioni assolutistiche di moltissimi credenti che probabilmente pensavano di poter vivere di rendite di posizione senza interrogare la propria coscienza, cosa che invece le parole e soprattutto i fatti di Papa Francesco costringono a fare quotidianamente.

Nicola Zingaretti, votatissimo presidente di questa regione che mi ospita ormai dal lontano 1998 nella mia schizofrenica vita a cavallo dello Stivale, ha invece sfruttato alcuni passi del libro di Fassina per richiamare al valore dell’autonomia del pensiero politico dentro una comunità quale un partito anela a essere. Ha portato la sua esperienza di amministratore e ha rivendicato che la buona amministrazione, stare vicino alla gente, ascoltare le istanze che vengono dalla società, è politica, rispondendo così all’osservazione di Chiara Geloni che faceva notare che spesso il governatore laziale viene descritto come una persona restia a parlare di politica, preferendo soltanto dibattere di amministrazione e delle cose realizzate o da mettere in cantiere.

Non si è risparmiato Zingaretti, nemmeno quando ha colto nel libro di Fassino lo spunto per un richiamo alla supremazia della Politica rispetto all’Economia e ha ricordato – difatti – che la cosiddetta terza via, che in Europa ha avuto come massimo esponente il Primo Ministro inglese Tony Blair, ha sostanzialmente fallito, e i risultati di questo progressivo ritiro del “pubblico” a favore della libertà economica, con un mercato lasciato a se stesso, li stiamo pagando profumatamente adesso. Il Presidente della Regione Lazio ha individuato nell’ex leader laburista britannico il principale responsabile di una stagione che ha portato a un sostanziale arretramento nella costruzione di una vera unione politica dell’Europa, ricordando come l’ex primo ministro era favorevole non alla massima europa possibile bensì alla minima europa necessaria. Ciò ha fatto sì che dopo l’allargamento a Est dell’Unione (grazie al lavoro della Commissione Prodi), che ha consentito probabilmente di evitare un altro conflitto in questo continente (su ciò sono profondamente d’accordo con Zingaretti), il processo di integrazione europea si è come arrestato, lasciando agli egoismi nazionali terreno fertile per riprendere vigore, con i risultati che vediamo proprio oggigiorno di un’Europa incapace di decidere e di risolvere questa maledetta crisi economica che è in primo luogo crisi di lavoro e di progetto politico.

Stefano Fassina ha chiuso il convegno riprendendo i dati citati dal governatore sulla crescita economica del G7, per la prima volta più bassa del resto del Mondo, e ha invitato a considerare diversamente la lotta politica. Ha parlato ovviamente di lavoro, del fatto che in un’era così difficile nella quale giovani e meno giovani si accontenterebbero di qualunque posto pur di lavorare, il compito della sinistra è comunque quello di lavorare per allargare i diritti. E in questo non si poteva che avvertire tutta la tensione del presente, con un dibattito politico che ritorna sull’ultimo baluardo (licenziamento discriminatorio) dell’articolo 18 rimasto in piedi, dopo la riforma Fornero. D’altronde lo stesso esponente democratico, durante la presentazione alla Camera del programma dei Mille Giorni del Governo presieduto da Matteo Renzi, aveva proprio sottolineato che il suo segretario – per risolvere la distinzione fra lavoratori di serie A e di serie B – aveva esposto una tesi per la quale tutti sarebbero retrocessi in serie C. Fassina ha anche rivendicato con orgoglio la propria autonomia di pensiero e ascoltandolo ho provato ammirazione per un uomo che pur essendo molto colto e con una buona proprietà di linguaggio ha – oggettivamente – enormi limiti comunicativi nella sua capacità oratoria. E se lo si ascolta con attenzione si comprende benissimo che siamo di fronte a un fine intellettuale e a un competente economista, che espone il suo punto di vista e ne pretende il giusto rispetto, proprio quello stesso rispetto che egli porta a coloro che espongono tesi differenti e punti di vista distanti dal suo.

Ed era inevitabile che mentre invocava maggiore attenzione a questi temi “concreti” nel dibattito politico, cercando di osservare il mondo nel suo complesso, noi italiani piccolo quartiere in una grande città mondiale, e invitando a non lasciarsi trascinare soltanto dal gossip politico, la mente mi è tornata allo sgradevole “Fassina chi?” che il segretario del PD – fresco di elezione – aveva rivolto all’ex esponente del governo che da lì a poco rassegnò le dimissioni. Credo che Fassina e Zingaretti abbiano ragione da vendere quando sostengono che siamo come imprigionati nel dibattito politico a una dimensione televisiva, ignorando che la bestia delle TV si nutre di futili scontri per fare ascolti e ignora sempre di più il contatto con la gente. Noi tutti forse ci stiamo convincendo che la lotta politica si faccia attraverso la televisione, ascoltando infiniti e stucchevoli dibattiti sulle battute di Renzi e le risposte di Brunetta o di Grillo: spesso ci ritroviamo a discutere di un tweet o di un post come se questo fosse politica, quando invece non lo è o quanto meno lo è solo marginalmente, come un seme nella terra che se non viene coltivato inevitabilmente diventa sprecato.

S’era fatto buio quando sono uscito dall’auditorium di via Rieti a Roma, nel quartiere Salario, dove si è tenuta la presentazione ma ero soddisfatto: finalmente dopo una politica fatta solo di strilli e di cinguettii, soltanto per avere un titolo sui giornali dell’indomani, avevo ascoltato una discussione seria, quasi sussurrata rispetto ai talk show in TV, certamente più noiosa delle slide di Matteo Renzi, ma sicuramente non meno importante in termini di formazione del pensiero che ciascuno di noi dovrebbe – almeno come esercizio – provare a fare prima di recarsi alle urne.

Certamente la politica – che è sempre ricerca del consenso – ha bisogno della comunicazione e in questo il Presidente del Consiglio è un maestro, vista anche l’assenza di nuovi competitor che non siano il vecchio Silvio Berlusconi. Diventa tuttavia insufficiente se rimane fine a se stessa perché senza il sostegno dei contenuti e del pensiero risulta un contenitore vuoto. E per far sì che la politica ritorni a occuparsi anche di ciò e non soltanto del medium, serve una comunità e la capacità di ascolto di chi – le istanze dal basso – ha il compito di recepirle e di portarle avanti. A questo dovrebbe servire un partito che non sia soltanto il comitato elettorale di un leader e – come afferma Stefano Fassina – la sola presenza del Partito Democratico certamente non basta, poiché rappresenterebbe soltanto una parte del pensiero politico nella società.

Se fossi il Presidente del Consiglio proverei prima ad ascoltare tutte le sensibilità dentro il principale partito italiano e poi – forte di quella robustezza – proverei a cercare il compromesso con gli altri, sapendo che ci sono valori che non hanno certo bisogno di encicliche laiche per ricordarci la loro non negoziabilità.

E se fossi invece il segretario del PD, cercherei di ascoltatore maggiormente anche chi – come Fassina e in parte Zingaretti – ha un pensiero politico diverso dal suo anziché alimentare sempre polemiche con le paludi, i gufi, i rosiconi e i professionisti della tartina: anche perché ieri – vi assicuro – tartine io non ne ho viste.

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