Le finestre di fronte

 In LIFE
Chiuse le ho trovate il 18 luglio e tali le ho lasciate il 5 settembre. Parlo delle finestre di alcune abitazioni che riesco a scorgere dal balcone della mia cucina, presso la mia abitazione catanese, dove sono solito sedermi e godere della meravigliosa vista dell’Etna.

Aprire quella finestra è una delle prime cose che faccio non appena rimetto piede a casa: mi piacere vedere subito la montagna, vedere cosa sia cambiato e cosa invece sia rimasto lo stesso, dare un segno di “vita” proprio dalla cucina, che di una casa è forse la stanza alla quale un po’ tutti noi italiani siamo affezionati, dove si discute attorno alla tavola per cena o dove i nostri figli ci raccontano le loro giornate scolastiche.

Così quel pomeriggio dello scorso luglio, appena tornato in Sicilia da una settimana in Puglia, ho fatto un po’ un “appello” al solito panorama. Molte case mi sembravano chiuse: appartamenti che ricordavo benissimo essere abitati tutto l’anno, bei villini più in là con i giardini una volta ben curati ma ora un po’ trasandati, terrazzi che rammentavo pieni di vita sin dal pomeriggio, con ragazzi dediti al divertimento estivo o signori intenti in buone letture.

Questa volta nulla di tutto ciò.

Salendo un po’ sull’Etna, a pochi chilometri da Mascalucia, il comune dell’hinterland catanese dove appena possiamo ci rifugiamo nel nostro appartamento dove abitarono i miei nonni, la scena assumeva contorni ancora più preoccupanti: lungo la strada che porta a Pedara, uno degli ultimi centri abitati etnei, nelle vicinanze dello stupendo centro sportivo “Torre del Grifo” del Calcio Catania, era impossibile non accorgersi della sequela di cartelli “vendesi”, uno dopo l’altro.

Appartamenti, villini, case a schiera: tantissimi alloggi erano vuoti oppure erano stati messi in vendita. Non soltanto le “seconde case”, che già di per sé è un indice della grave crisi economica che il Meridione vive, ma anche le “prime”, villini individuali che ricordavo bene essere stati completati durante l’anno trascorso da pendolare con Roma (quindi sei anni fa) e che rappresentano per definizione il coronamento degli sforzi di una famiglia: abbandonare un condominio e “costruirsi” la propria casa. E se talvolta la vendita della “seconda casa” equivale spesso all’anticipo per un figlio fuori sede, in una delle grandi città del centro-nord, la messa sul mercato della prima abitazione rappresenta inequivocabilmente la prova provata della fondatezza dell’allarme lanciato dallo SVIMEZ, l’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno, che nel rapporto presentato a fine luglio ha parlato di un Meridione ormai scomparso dai radar della politica nazionale, con un andamento dell’economia a livello di quello greco, se non peggio. Ne ha parlato anche Marco Damilano su l’Espresso in edicola da venerdì scorso che porta una copertina da brivido, almeno per noi meridionali, tanto che Enrico Letta ieri ha twittato amaramente dicendo che il disegno secessionista di Umberto Bossi si è de facto realizzato.

Questa desertificazione mi ha ricordato quanta demagogia che abbiamo sentito sulla scuola. Abbiamo trascorso un’estate intera ascoltando due opposti estremismi: quello del governo italiano, che ha illustrato la riforma scolastica come una rivoluzione copernicana, conformemente al mainstream della narrazione renziana che illustra le riforme, più o meno tali che il governo ha attuato nel corso di questi diciotto mesi di vita, come se fossero delle scoperte scientifiche di rilevanza universale. Dall’altro lato l’assurda scelta comunicativa dei docenti che nella loro legittima protesta contro la riforma scolastica hanno avuto la brillante idea di parlare di “deportazione“, come se fosse veramente quello il termine corretto da utilizzare, pur comprendendo il disagio di tantissimi insegnanti, specialmente quelli di mezza età o quasi prossimi alla pensione, quasi sempre con coniugi e figli di un’età tale che risulta complicato anche solo immaginare un trasferimento familiare. In mezzo a questa collettiva follia, di coloro che si credono i nuovi salvatori della Patria e di chi invece si immagina vittima di una persecuzione totalitarista, rimane appunto il Meridione: un Sud che mano a mano che passa il tempo si avverte sempre più il progressivo svuotamento, la desertificazione del tessuto economico e imprenditoriale,  con la continua smobilitazione di aziende che davano lavoro, con la conseguenza che se prima il surplus dei docenti era dovuto al fatto che l’insegnamento fosse una delle pochissimi opzioni per un “posto di lavoro”, mano a mano che la crisi spiega i suoi effetti tale differenziale diviene si accresce ancora di più per il semplice fatto che il calo demografico si tradurrà – prima o poi – nella diminuzione dei servizi scolastici (a chi devo insegnare se i giovani se ne vanno e i figli li fanno altrove?).

Vorrei tranquillizzare i lettori di questo blog: non è mia intenzione tornare indietro sulla scelta di non scrivere più di politica. Con la politica, con questa politica di ogni giorno, urlata, cinguettata, postata ho chiuso. Almeno su questo blog!

Voglio soltanto raccontare cosa ho visto con i miei occhi, girando un po’ del Mezzogiorno, dalla bellissima Puglia alla mia amata terra.

Mi ha colpito moltissimo – a esempio – passeggiare per Acireale, cittadina che conosco molto bene avendoci trascorso gli otto anni di scuola superiore e avendone avuto a che fare altri cinque durante gli anni di liceo di mia sorella: sulla via principale, l’elegante Corso Umberto, ho perso il conto di quante vetrine fossero chiuse con la scritta “Affittasi” o addirittura abbandonati, impolverati, lasciati in balia del tempo e del sole che ingiallisce ogni cosa. Lì dove una volta si andava a fare shopping senza perdersi nella confusione del capoluogo etneo adesso c’è un deserto.

Ed è assolutamente beffardo pensare che mentre quest’anno la Sicilia ha persino ricevuto un aumento delle presenze turistiche (come tutta Italia, d’altronde, beneficiando della crisi greca che ha innescato la paura di recarsi in massa laggiù come spesso accaduto in passato) molti commercianti non hanno potuto nemmeno “agganciare” questa ripresa turistica. Così ti colpivano i turisti francesi e inglesi con il nasino all’insù ad ammirare le meravigliose chiese barocche acesi ma che non potevano di certo spendere i loro euro e le loro sterline nei negozi degli acesi.

Poco più a sud, nelle calde giornate ferragostane, l’impressione che si aveva era di una terra svuotata e così lo era stato anche in larga parte della Puglia: la sensazione che il problema dell’emigrazione dei docenti è semplicemente un granellino nella vasta distesa sabbiosa che sta restando del nostro Mezzogiorno. Eppure quelle terre, quel Sud, avrebbero tanto da offrire e guadagnare se soltanto le loro classi dirigenti e le loro popolazioni abbandonassero il loro atavico e storico torpore e provassero a immaginare per se stessi un altro futuro, un’altra chance per sé e per i loro figli, almeno per quelli che sono ancora rimasti laggiù.

Noi siciliani, abituati da millenni a esser invasi da ogni popolazione che sbarcasse sulle nostre coste, di questo torpore portiamo la massima responsabilità: con la scusa di prendersela con la “politica”, con il Primo Ministro di turno, con il Governatore appena eletto, con il Sindaco, nascondiamo dietro una larga quinta di scena la nostra precipua responsabilità nel disastro che la nostra isola è diventata. La portiamo non soltanto per il fatto di aver votato per cinquanta anni sempre dallo stesso lato, preferendo il pacco di pasta oggi anziché la farina da produrre domani, ma anche e soprattutto per aver continuato a inculcare di generazione in generazione una sorta di ineluttabilità del destino: «d’altronde, si sa, è sempre stato così» è la frase che spesso chiude gli sfoghi dei siciliani, dai più ignoranti ai più colti, accomunati in questo da una sorta di apatica accettazione di un destino che hanno deciso di subire, concedendosi appunto al più uno sfogo verbale.

Diciamocelo una volta per tutte: se migliaia di giovani e meno giovani sono costretti ad andarsene, se i migliori cervelli delle nostre parti ritengono sia meglio accasarsi quanto meno oltre Teano, spesso ormai oltre il Po, se anche le menti più normali e spinte dal desiderio di riappropriarsi della propria terra vengano scoraggiate a farlo perché appunto «si sa, è sempre stato così» è perfettamente inutile prendersela con il Governo, la Regione, le Province (o come diavolo si chiamano adesso), il Comune, la Parrocchia, la Diocesi, la Santa Sede: il problema sta dentro di noi, all’interno di una mentalità assistenziale che fa sì che si sia rinunciato all’iniziativa individuale, a farsi attori della rinascita propria e della comunità della quale si fa parte. Il problema sta all’interno delle nostre famiglie imprigionate da una secolarizzata e stagnante forma mentis che impedisce ai nostri ragazzi di sprigionare quelle energie positive e vitali che qualunque ventenne ha sempre avuto. Mi ha colpito – di ritorno da una serata a Santa Maria la Scala, borgo di pescatori sotto Acireale – il quantitativo di giovani (e la sensazione era che molti fossero minorenni) che bevevano super alcolici (mescolandoli tra loro!) a uno di quei chioschi dove noi catanesi siamo soliti bere le nostre bevande a base di sciroppo. Mi sono quasi sentito ridicolo chiedendo un classico “seltz, limone e sale” di fronte a ragazzini, che sarebbero potuti essere tranquillamente miei figli, i quali li vedevo bere spaventosi cocktail alcolici: per carità, le ubriacate le abbiamo fatte tutti, ma nelle loro facce c’era qualcosa di strano, di un’omologazione non fisiologica, di un compromesso al ribasso con la vita, di un’accettazione di un destino non invertibile: «si sa, è sempre stato così»

E se la vicenda dei docenti che si dichiarano “deportati” assume un carattere grottesco – i docenti dovrebbero tutti conoscere un po’ di storia per evitare di scomodare paragoni storici offensivi verso i veri deportati – altrettanto ridicolo diventa l’assenza non soltanto di tutte le istituzioni ma anche proprio della propria individuale capacità di riscatto.

Se da un lato tutti i livelli governativi, da Palazzo Chigi all’ultimo comune meridionale, dovrebbero smetterla di giocare a rimpiattino, cominciando seriamente a fare politica industriale per il Mezzogiorno, dall’altro noi abitanti di quelle terre abbiamo un duplice dovere: innanzi tutto abbiamo il compito di invertire il mantra che finora ci siamo sorbiti per far sì che le generazioni successive non vivano più questo stato catatonico di accettazione silente e di un’emorragia di risorse umane spaventosa. Poi dobbiamo pretendere che le Istituzioni, quelle soprattutto che «non si crea lavoro con un decreto» oppure «non è lo Stato a dover creare lavoro» – frasi ovviamente condivisibili ma che ormai costituiscono la foglia di fico per non far nulla – mettano in atto politiche per far sì che quei giovani e meno giovani, che non hanno intenzione di rassegnarsi a questo ineluttabile destino (e ne conosco tanti nella mia Catania intenzionati a non darsi per vinti!), siano supportati per far “nascere” veramente una nuova società. Compito certo dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali non è quello di “assumere” ma c’è modo e modo di creare condizioni affinché si generino le opportunità di lavoro: è limpido come il mare salentino che il Mezzogiorno non può più essere gestito alla stessa stregua del nord. Abbiamo bisogno di massicci investimenti, anche e soprattutto pubblici, insieme con una defiscalizzazione anche temporanea sull’esempio irlandese. Il Governo centrale dovrebbe imporre la nostra Questione Meridionale, mai risolta dai tempi dell’Unità d’Italia, a livello europeo, perché siamo (o meglio dovremmo essere) il Mezzogiorno dell’Unione Europea. Come ha scritto qualche tempo fa Massimo Gramellini sul suo corsivo quotidiano su la Stampa, servirebbe una cura choc per il Sud: meno tasse per attrarre investimenti stranieri, esercito per proteggere e realizzare le opere pubbliche che servono, trasparenza totale negli appalti, dirigenti politici locali (e anche parecchi nazionali, onestamente!) sospesi a tempo indeterminato.

Ma ho la sensazione che tutto ciò non basterebbe se non fosse accompagnato da un reale cambiamento nella mentalità di noi meridionali: non affidarsi più al dominatore di turno ma attrezzarsi per farcela da soli, ponendo le basi affinché si arresti l’emigrazione forzata di questo terzo millennio, magari incoraggiando persino un’inversione di tendenza, visto lo stupendo clima che abbiamo la fortuna di vivere e la qualità del cibo che possiamo gustare sulle nostre tavole.

E magari – perché no – incoraggiando e rendendo possibile che anche coloro che vogliono tornare lo possano fare senza scontrarsi con ulteriori ostacoli (e qui ogni riferimento personale è ovviamente voluto!).

 

 

 

 

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