Yin e Yang – part 2
Quattordici anni fa, qualche mese prima di ritrovarmi felice e disoccupato in Argentina, non pensavo minimamente né alla pensione né al fatto che mi sarebbe toccato lavorare fino a un’età piuttosto elevata. Analogamente, quando nel biennio 2006-07 il Ministro del Lavoro del secondo Prodi, Cesare Damiano, sulle orme del suo predecessore berlusconiano Maroni, rese obbligatoria la scelta del conferimento del Trattamento di Fine Rapporto a un fondo pensione integrativo (con un’unanimità senza precedenti, destra, centro, sinistra, sindacati e confindustria!), scelsi di tenere invece in azienda il mio salario differito, stabilendo sin da subito che mi sarei occupato di quel gruzzolo a tempo debito, quando sarei andato in pensione o mi fossi dimesso. L’attuale successore di Damiano, Giuliano Poletti, ha invitato i giovani a versare contributi proprio per far fronte al problema che si manifesterà fra quarantacinque anni. Ora a parte il fatto che per versarli un lavoro bisognerebbe pur averlo ma qui vorrei riflettere non tanto sul “lavoro” in sé quanto sulle aspirazioni che un giovane di 30 anni è lecito abbia a quell’età.
Nel mio post precedente con lo stesso titolo, avevo parlato del dibattito sulla scelta universitaria scaturito dagli articoli di Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano. Qui invece voglio riflettere su un’altra cosa, sul fatto che non basta un lavoro per fare di un trentenne un cittadino soddisfatto e felice. Nel dibattito politico-sociale attuale non trovano più spazio i sogni ma i bisogni: chiedo scusa per il gioco di parole quasi Crozza-Renziano ma proprio questo è il punto. Lo scorso anno si è molto discusso sul lavoro di sei mesi che veniva offerto all’Expo, deridendo – anzi massacrando – chi osasse eccepire che forse un po’ di fregatura ci fosse veramente e che non tutti potessero trovarsi nelle condizioni di accettare un contratto di sei mesi, spostando la propria vita a Milano senza non una certezza ma nemmeno un barlume di possibilità di giocarsi le proprie carte nel post-Expo. Così anche per il dibattito sulle cattedre della scuola, ridotto a una sorta di ping-pong fra opposte fazioni.
Noi pensiamo che per il solo fatto che esci dalla scuola o meglio ancora dall’università tu debba accettare qualunque impiego pur di portare a casa un salario che ti consenta di versare i tuoi contributi previdenziali. Ma tutto ciò rende deprimente, all’età della massima creatività, la ricerca del coronamento dei propri sogni, accontentandosi pertanto del mero soddisfacimento dei bisogni – spesso primari – lasciando a chi invece ha più opportunità economiche e reti di conoscenze più consolidate le chance di attendere un po’ più, studiare meglio le proprie possibilità e rischiare. Ha fatto molto parlare in rete l’intento di Mark Zuckerberg e della moglie di voler donare il 99% del proprio patrimonio azionario, oggi stimato in 45 miliardi di dollari. Ora a parte che a bocce ferme l’1% di un simile patrimonio è pari ai fondi stanziati dal governo italiano per la prossima abolizione della tassa sulla casa (e forse ne rimangono!) ma il tema non è questo: superata una certa soglia di ricchezza, una soglia che consente a te e alla tua famiglia di soddisfare qualunque bisogno primario o secondario tu possa avere, del resto non te ne fai nulla se non lo reinvesti nella società, con filantropia o investimenti, per ricavarne quindi non la sazietà dello stomaco ma quello dell’anima.
In un paese come il nostro, invece, fondato sul mattone e dove ogni famiglia educa i propri figli affinché si mettano da parte i soldi per acquistare un tetto come se il diritto alla casa – sacrosanto – sia un diritto al possesso (c’è una grande differenza, invece) giovani e un po’ meno giovani come me sono stati letteralmente indottrinati a seguire un certo binario della ferrovia che ti porta direttamente dalla gioventù alla vecchiaia, chiudendo sogni e aspirazioni personali in un cassetto, stigmatizzando spesso come originali ed eccentrici i legittimi desideri che i trenta-quarantenni possano provare.
Le enormi responsabilità che però porta addosso la generazione precedente, quella dei nostri genitori e dei fratelli maggiori, non possono e non debbono diventare la foglia di fico dietro le quali quelle successive pensano di trovare rifugio: coltivare i propri sogni, lavorarci sodo per raggiungere passo dopo passo, curva dopo curva, salita dopo salita, la tua meta non è soltanto doveroso verso se stessi e tutti i sacrifici che si sono compiuti sui libri di scuola. È un dovere sociale nei confronti della collettività: perché se si continua a pensare che nulla si possa cambiare, che la vita sia una sorta di viaggio in corriera che dalla gioventù ti porta dritto nella tomba, passando più o meno dalle varie tappe canoniche del lavoro, del matrimonio, dei figli, dei nipoti e quindi della pensione, noi condanniamo una o forse due generazioni intere non tanto all’infelicità ma a una progressiva atrofizzazione dell’unica risorsa non replicabile che l’essere umano possiede: il cervello.
E se per un quarantenne è certamente dura seguire nel profondo le proprie aspirazioni, con un percorso che più che impervio assomiglia sempre di più al Passo dello Stelvio nel pieno del Giro d’Italia, un trentenne dovrebbe sentire dentro il fuoco della passione e la voglia di far spallucce di fronte ai dati catastrofici che l’INPS periodicamente – e giustamente – propone a chi deve politicamente decidere. E la ragione di fregarsene e seguire il proprio istinto e i propri sogni sta proprio nel presupposto di quei dati: essi sono fondati sulla situazione attuale di scarsa crescita demografica ed economica. Non è detto che questa situazione economico-sociale debba essere permanente ma il cambiamento non potrà avvenire se quelle generazioni, così tanto appiattite sui vecchi schemi sociali, non si rendono conto che un altro tipo di società, di economia e di stile di vita può essere possibile, come d’altronde si comincia a intravedere e non è detto che sia soltanto un peggioramento ma che si potrà anche scovare qualche opportunità.
E che magari avranno una casa di proprietà in meno ma forse qualche sogno in più che dal cassetto viene tirato fuori e finalmente si realizza.