(Almost) Londoner

 In LIBRI, LIFE
Hackney, est di Londra. Piove. «E dov’è la novità?» – direte voi. In verità nei miei viaggi inglesi sono sempre stato fortunato. L’estate del 1989 fu addirittura torrida: i maglioncini di cotone rimasero nella mia valigia per tutto il mio soggiorno a St. Albans, la “Maranello” degli inglesi, la città della Maclaren.

Anche quella volta, nell’ottobre del 2009, il clima londinese era delizioso: un autunno mite – certo non come quello che avevo lasciato a Catania ma ugualmente piacevole – e una città meravigliosa, che adoro dal mio primo incontro con lei a sedici anni. Mi trovavo ospite da Virginia, che chiamare amica sarebbe riduttivo visto che la conosco da quando è nata e che a casa mia era ed è praticamente una sorella per me e soprattutto per mia sorella, coetanea, con la quale sono cresciute insieme. E quindi – dicevo – quella volta. Anzi, quella mattina, quella stramaledettissima mattina …

Il cielo è grigio e non promette di certo nulla di buono, a dispetto del detto che vorrebbe che si aspettino cinque minuti e a Londra spunta il sole. Virginia si sta preparando per andare a lavorare mentre io comincio a controllare le mail, rispondo a qualche annuncio: sono finalmente a Londra da quasi una settimana e sto cominciando a capire se mi possa piacere vivere in questa città da “grande” e con una famiglia. Mia moglie e mia figlia sono rimaste a Catania: ci siamo trasferiti giù approfittando del Congedo Parentale che la legislazione italiana garantisce ai lavoratori dipendenti. Due sono i progetti sui quali abbiamo concentrato i nostri sforzi: restare a Catania per provare a vivere nella nostra Sicilia o trasferirsi a Londra e cambiare vita, ma di Roma proprio non ne vogliamo più sentire. Leggo un po’ di annunci, seleziono, rispondo, spero. Poi il display del mio telefono si illumina.

È Silvia che mi chiama e dopo quella telefonata tutto cambia. Mi dice che si trova all’Ospedale Garibaldi di Catania, che all’asilo nido Elisa è caduta (o l’hanno fatta cadere, non si è mai capito) e che stanno aspettando di farle la TAC. Il sangue mi gela dentro: conosco bene quella sensazione di freddo intenso dentro di me, interiore, e ricordo perfettamente quando l’avevo provata – 18 anni prima – nel vedere mio padre aprire le braccia e venirmi incontro in un altro nosocomio catanese e per annunciarmi qualcosa che un figlio non vorrebbe mai sentirsi annunciare.

Virginia mi saluta e mi chiede di chiamarla per aggiornarla; io nel frattempo controllo i voli per Catania: non so se aspettare o tornare in Sicilia. Mi vesto a fatica. Mi convinco che devo continuare a fare quello per cui mi trovo a Londra: conoscere questa città e capire come cominciare a trovare un lavoro. E anche in fretta perché non voglio tornare – nel marzo successivo – a Roma. Esco. Salgo sull’Overground, il treno di superficie che integra il celeberrimo Tube sotterraneo, dirigendomi verso Canary Wharf, la nuova city londinese dove una marea di società d’affari hanno stabilito il loro Quartier Generale.

La pioggia cade lentamente ma inesorabilmente: a Catania la chiamiamo “assuppa viddanu” perché quando piove così il contadino (lu viddanu) non le dà molto peso ritenendo piova non in maniera proibitiva e continua a lavorare la terra, ritrovandosi alla fine “assappanatu”, inzuppato. Attraverso il finestrino mi scorre un’altra Londra: sto allontanandomi dalla zona 2 (scoprirò peraltro soltanto a sera che la mia Oyster Card, la tessera della metropolitana londinese, non era valida per quell’area!) e comincio ad allontanarmi ancora un po’ dal centro, ma la vastità della città è impressionante. Cambio linea, prendo un altro servizio, il DLR, e finalmente arrivo a Canary Wharf: mangio qualcosa e comincio a girare.

Mi sento uno zombie: consulto in maniera compulsiva il cellulare, come se tutto ciò accelerasse la nuova telefonata di Silvia. Vago per i grattacieli, la pioggia cade sempre più intensa, il gelo che sento dentro si fa sempre più forte. Ho paura e capisco soltanto una cosa: voglio la mia bambina e la voglio in quel preciso momento. Non posso più stare lì.

Mi infilo nella metropolitana e torno a Dalston, dove “abitiamo” con Virginia. Mi attacco al computer e compro un biglietto per Catania: c’è ancora British Airways che opera su quella tratta e in serata posso essere anche io al Garibaldi. Raccatto le mie cose, riempio la valigia e saluto la mia amica: «Voglio tornare a casa, G.» – le dico al telefono – «Non so se torno e quando torno. Ho bisogno di stare con Silvia ed Elisa.» Sul treno che da Londra mi riporta a Gatwick, Silvia finalmente mi chiama e mi tranquillizza. Conveniamo sia meglio che io torni a Catania e che Londra può anche aspettare un po’.

L’attesa dura meno di sei mesi: il 4 marzo del 2010, nemmeno tre giorni dopo il mio rientro a Roma, volo di nuovo a Londra per un colloquio in centro. Ma da esso non scaturisce nulla di che. Ad aprile decidiamo che il progetto catanese è al momento fallito e che tutta la famiglia deve rientrare a Roma dopo l’estate per vivere insieme la vita quotidiana e non soltanto i weekend e le feste comandate. Prendo in affitto un trilocale poco fuori Montesacro, il quartiere dove abbiamo abitato fino all’anno prima: non è male la zona e c’è molto verde, i bambini giocano in una piazza privata e l’appartamento è molto luminoso, pieno di sole. Un amico e mia sorella mi prestano a turno le loro auto per andare da Ikea e comprare un po’ di roba: comincio un setup della nuova vita romana con il magone, con gli occhi che periodicamente si riempiono di lacrime per dover lasciare – di nuovo – casa mia e la mia terra e per giunta per trasferirmi – quasi definitivamente, chissà – in una città che non riesco a digerire più di tanto e che comunque non può più offrirmi nulla di quello che già non mi abbia offerto.

Tra agosto e settembre riempiamo valigie e scatoloni: si riparte. Non facciamo nemmeno in tempo a svuotarli tutti che a fine marzo il cellulare “inglese” squilla: è Victor e mi propone un lavoro per una società italiana Hi-Tech di base nella capitale inglese. Londra torna a bussarmi alla porta e io ancora una volta rispondo. Dobbiamo partire per la California così concordiamo un colloquio telefonico al nostro rientro e in un orario comodo per poter chiacchierare in libertà. Approfittando di una riunione pomeridiana all’EUR, a sud di Roma, gli propongo di chiamarmi verso l’ora di pranzo, così da potermi successivamente dirigere alla metropolitana. Mi fermo su una panchina dentro i giardini della Biblioteca Nazionale di Castro Petrorio e con Victor discutiamo per almeno tre quarti d’ora. Il mio inglese ancora non si sta arrugginendo, ho retto tutto sommato una conversazione, ci posso provare.

Qualche giorno dopo lui mi scrive di nuovo e mi dice che l’azienda vuole sentirmi di persona, così concordiamo una nuova intervista telefonica e la cosa comincia a “spaventarmi”: si fa sul serio, penso tra me e me. Il 14 aprile 2011 alle 10 del mattino il cellulare “inglese” ri-squilla e stavolta oltre a Victor in conference call c’è anche un manager dell’azienda che è interessata a me. Parliamo un’ora in tutto, spulciamo il mio CV dalla prima esperienza per Nortel, la multinazionale canadese che mi battezzò nel mondo del lavoro, e loro sembrano apprezzare le mie risposte. Nemmeno due settimane dopo il cellulare “inglese” squilla ancora: è sempre Victor che mi comunica che la società italiana è fortemente interessata a conoscermi e che insieme a un altro candidato vorrebbe fare un ultimo incontro di persona. Mi propongono due date e visto che sono l’unico che deve volare a Londra da fuori mi lasciano non soltanto la libertà di scelta del giorno ma mi assicurano anche che quello sarà per entrambi i candidati l’ultimo colloquio, un po’ più lungo del solito così da incontrare tutta la catena gerarchica della risorsa che cercano e la responsabile delle Human Resources: insomma quella sarà la finale di Champions’ League … a Wembley.

Chiamo Virginia la quale mi spalanca nuovamente le porte di casa sua per la terza volta in un poco più di un anno: «Casa mia è anche casa tua, Enzo, viene e stai quanto vuoi!» – mi ripete generosamente. Prendo un giorno e mezzo di ferie e volo a Londra in una serata di inizio maggio deliziosa. Ceno con Andrew, un nostro amico inglese e poi finalmente a nanna. Sono un po’ nervoso – lo ammetto – e chi non lo sarebbe: se mi arriva la proposta e se questa è “seria” ci possiamo trasferire a Londra. Dormo bene, tutto sommato, e la mattina dopo mi alzo di buona lena e faccio colazione. Passo prima da un barbiere turco a Stokie e finalmente arrivo con molto anticipo a Shoreditch, un’area piena di aziende hi-tech che ha preso uno sviluppo incredibile. Pranzerò più tardi – mi dico – è meglio non essere appesantiti.

I colloqui durano oltre due ore, due ore di approfondito esame del mio CV e di me, come persona, come professionista, come tecnico, come ingegnere. Alla fine si congedano e dopo qualche minuto prima di mangiare un boccone squilla ancora una volta il telefono: è sempre Victor che mi comunica che la società è rimasta molto colpita e che per la sua esperienza probabilmente una proposta me la faranno. Il mio “avversario” della finale arriverà nel pomeriggio, proprio quando io devo ripartire per Roma, ma secondo lui io almeno ho il vantaggio del primo turno di interviste: insomma ho segnato in trasferta e i gol in Europa – lo sappiamo da bambini – valgono doppio!

Chiamo Silvia e le racconto tutto, ripromettendoci di riparlarne a casa la sera, non appena fossi rientrato. Acchiappo il volo di rientro di corsa (ho rischiato di perderlo, lo giuro!) e durante quelle due ore sui cieli europei comincio seriamente a immaginarmi a Londra. Atterro a Fiumicino alle 9 di sera, esausto ma con tanta di quella adrenalina in corpo da non riuscire certo a dormire quella notte senza aver preso una decisione, o meglio senza essermi preparato psicologicamente a prenderla. Prendo il trenino per Termini e quindi il bus: la città che mi passa accanto al finestrino la conosco bene ma allo stesso tempo è come se non la conoscessi più. Qualche ora prima sul Gatwick Express osservavo la periferia di Londra: le villette, quelle che al liceo la professoressa Consoli ci insegnava a distinguere in detached e semi-detached a seconda di quante famiglie ospitassero, cominciavano ad allettarmi di più dei prati della periferia romana. La Via Nomentana con le sue ville comincia a diventarmi più estranea di Kingsland Road, l’arteria che percorrevo a piedi per tornare a casa di Virginia da Shoreditch.

Arrivo a casa che sono abbondantemente superate le 10 di sera e la mia bambina è già a letto: mi doccio, mi vesto e le do un bacio sulla testolina sperando di non svegliarla. Con Silvia ci sediamo in cucina: beviamo un po’ d’acqua, le racconto del mio colloquio, di quanto fossi contento – nonostante il mio rusty english – ad aver affrontato quella mattina una serie di interviste con domande anche complicate ma alle quali – bene o male – ero riuscito a dare una risposta. «Più di questo non potrei dare, per l’esperienza che ho fatto finora!» – ammetto a mia moglie – «E ora che facciamo? Andiamo a Londra?» – le domando.

«Certo!» – mi risponde lei entusiasta come lo è sempre di fronte ai cambiamenti – «Sarebbe una bellissima esperienza, specialmente per Elisa che crescerebbe bilingue!». In effetti ha ragione. Elisa non ha ancora tre anni e magari a Londra imparerebbe bene l’inglese e magari qualche altra lingua straniera attraverso l’universo di baby sitter, nanny, compagni di scuola e amici. La nostra casa romana ha ancora i mobili della coppia di anziani che ci abitava prima e che la proprietaria dell’appartamento – la figlia dei due – ha lasciato dentro per affittarla arredata: in cantina alcuni scatoloni stanno ancora intonsi da settembre e potrebbero di nuovo essere rispediti in Sicilia se Victor mi darà buone notizie. È il 4 maggio 2011, un mercoledì, e forse la mia vita privata e professionale sta per cambiare in maniera radicale e per sempre.

Passiamo tutto il fine settimana ad approntare un piano operativo: loro dovranno tornare in Sicilia a giugno mentre io mi occuperò del trasferimento a Londra. Osserviamo siti di annunci immobiliari, cerchiamo scuole pubbliche e private per Elisa, leggiamo la guida che il governo britannico ha messo su internet per coloro che si trasferiscono nel Regno Unito. Individuiamo persino qualche zona carina dove trasferirci e facciamo un budget: inizialmente andremo a vivere lontano, dove magari potremo permetterci una casa di due stanze; l’importante è non essere troppo distanti da Virginia che è il nostro riferimento in città.

Arriva il lunedì e cinque giorni dopo il colloquio Victor mi ricontatta: stavolta però il cellulare non squilla, evidentemente le cattive notizie è sempre meglio mediarle attraverso la scrittura. Mi comunica quanto gli abbia scritto Mike, della società hi-tech: «nonostante Vincenzo sia un’ottima candidatura, non è un candidato sufficientemente forte per gestire i nostri progetti software». Infine scrive Victor: «Many thanks and I will start looking at possible job opportunities for you». Victor non mi ha più né scritto né contattato e il mio cellulare inglese da allora non ha squillato più.

Sarebbe forse stata più o meno questa la storia che avrei raccontato a Enrico Franceschini, corrispondente per Repubblica dalla capitale del Regno Unito, se avessi vinto io la finale di Champions’ (e magari fossi riuscito ad andare un po’ più avanti in carriera) e se naturalmente avesse avuto lui la voglia e la bontà di intervistarmi. È quello che infatti il giornalista emiliano ha fatto raccogliendo le storie degli abitanti della più grande città italiana fuori lo Stivale che è ormai Londra, dove abitano oltre mezzo milione di italiani, fra quelli che si sono regolarmente iscritti all’AIRE e quelli che invece non hanno ottemperato a questo bizzarro obbligo italiano senza sanzione, esempio fulgido di cosa sia l’inutile burocrazia nel nostro Paese.

Si stima infatti che gli italiani nell’area di Londra siano ormai un numero che varia fra i cinquecentomila e i settecentocinquantamila, un numero che pone questa comunità come la quinta città italiana dopo Roma, Milano, Napoli e Torino e ben prima di Palermo, Genova, Bari, Firenze, Bologna o la mia Catania. E il numero continua a crescere e sono emigranti – expat (da espatriati) come amano definirsi loro – di fresca “nomina”, dato che assume un significato assai maggiore di quanto possa essere quello relativo a Buenos Aires, per esempio, finora la città “italiana” più popolata fuori dalla penisola e che però è maggiormente abitata da emigranti che da padre in figlio si sono trasmessi la cittadinanza e non – come avviene oggigiorno a Londra – per scelta precisa e consapevole. Un vero esodo di proporzioni quasi bibliche si riversa nella città londinese nonostante il costo della vita esorbitante e il ritmo di vita frenetico.

Franceschini, con la sua penna acuta, ci accompagna in questo libro in un viaggio non soltanto fra i nostri connazionali ma anche fra le varie zone di Londra. Emiliano doc, e come tale assai “sensibile” alla buona cucina e infatti dedica a caffè e ristoranti italiani i primi capitoli del libro, il corrispondente del giornale, ora diretto da Mario Calabresi, ci porta con sé in giro per la capitale britannica dove incontra gli italiani che hanno scelto questa città e sono riusciti stabilirvisi. Ci parla dei bar, delle pizzerie, dei parrucchieri: molta emigrazione ha trovato successo al di là della Manica nei mestieri più tradizionali, innovando, investendo creatività e divenendo fattore di tendenza per la moda londinese.

Ma ci racconta anche di altro: di studiosi, di letterati, di giornalisti, di medici, di un mondo comunque assai complesso e ormai completo e pieno di tutto proprio come deve essere quello di una città. Cosa contraddistingue tutti questi racconti? Quale fattore hanno in comune la trentina di capitoli e quindi di storie che Enrico Franceschini ha raccolto nel libro? C’è sicuramente l’afflato verso la meritocrazia che la maggior parte di questi italiani intervistati pone come il fattore di maggior successo per la loro scelta londinese e di minor resistenza nel dover lasciare l’Italia.

Una cosa che mi ha colpito notevolmente è stato il numero assai considerevole di intervistati che si occupano di discipline letterarie o comunque materie connesse con le lettere e le lingue: se infatti un fisico, un ingegnere, un medico ti immagini possa svolgere la sua professione ovunque e l’unica barriera è proprio la lingua, diverso è quando ti trovi di fronte dei laureati in lettere, classiche o moderne, o in Storia e Filosofia. In Italia – ne parlai qualche tempo addietro ripensando a una polemica estiva sul Fatto Quotidiano relativamente alle facoltà umanistiche – siamo abituati al concetto che lo studente di discipline classiche o letterarie possa al massimo aspirare a un lavoretto di content manager o a infilarsi nel mondo della precarietà dell’insegnamento scolastico.

Case editrici o giornali sono quasi preclusi: per i secondi abbiamo pure l’Ordine professionale. Per non parlare del mondo universitario: come in molte facoltà raccomandazioni e baroni universitari impediscono una valutazione serena delle candidature; e lasciamo stare il mondo della ricerca scientifica che spesso viene persino deriso in nome della “non utilità”, come se chi avesse l’intuito di un filone di ricerca sia anche una specie di indovino, in grado di prevedere le ricadute industriali e occupazionali della propria ricerca che è – come deve essere la scienza – accrescimento della conoscenza dell’umanità.

Per tale ragione sono rimasto molto sorpreso dal leggere i racconti e le esperienze di docenti addirittura a Oxford, forse la più prestigiosa università europea: soprattutto ho apprezzato la storia di una coppia di letterati, marito e moglie, che ha messo su una casa editrice di nicchia che sta riscuotendo un grandissimo successo. Se ripenso alla scommessa di Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi con la loro “La Nave di Teseo”, come risposta alla fusione fra Mondadori e Rizzoli, oppure alle piccole case editrici che faticano a stare su un mercato cannibalizzato dai giganti, rimango sbalordito. Non mi stupiscono certamente il successo di certe carriere in ambito scientifico e tecnologico: avendo sfiorato la mia “coppa” so che questo è possibile, un po’ meno immaginavo che in questa grande città italiana fuori dai nostri confini, regolata da leggi che non sono le nostre, perfino le carriere legali si riuscissero a perseguire. C’è una cosa che mi rimane però come curiosità.

Enrico Franceschini ha incontrato tantissime persone, le più svariate e le più diverse fra loro, dai camerieri ai proprietari di caffè, dal parrucchiere di Kate e dei VIP a Barbara Serra, dalla moglie (e sua amica) del bravissimo attore Colin Firth, Livia Giuggioli, produttrice e regista cinematografica, a Nancy Dall’Olio, ex compagna di Sven Goran Ericsson, praticamente più famosa (o quasi) di Elisabetta II, dal finanziere e amico del nostro premier Davide Serra all’inventore di Candy Crash Saga, il videogioco delle caramelle dal quale – fortunatamente – mi sono disintossicato! E tantissimi ma tantissimi altri che però sono quelli che ce l’hanno fatta, quelli che proprio grazie alla meritocrazia del mercato del lavoro britannico sono riusciti a vincere le loro partite e a restare a Londra. Mi chiedo invece cosa accade per coloro che non ce la fanno, che non hanno le capacità, che perdono quelle partite come la mia finale di Champions’ e non hanno un paracadute come l’ho avuto io per tornare a Roma.

Nel libro infatti emergono due macigni che i nostri connazionali accettano in questa scommessa di vita a Londra: il classismo degli inglesi e il divario fra ricchi e poveri. Il primo è cosa arcinota: gli inglesi sono ancora divisi in classi, se non in caste, dalle quale di fatto non ci si può muovere. Ciò si riflette nelle enormi difficoltà che incontra nella vita chi si trova nella lower class, la più povera, per riuscire a muoversi verso l’alto o per consentire opportunità ai propri figli di muoversi. L’ascensore sociale funzionerà pure ma se quando a quattro anni devi scegliere – o meglio lo faranno i tuoi per te – che scuola prendere perché da questa scelta può dipendere la tua vita, allora comprendi che anche Londra ha una faccia oscura della medaglia. Gli stessi letterati intervistati proprio su questo mettevano l’accento: l’abisso fra le public school, che a dispetto del nome sono a pagamento esoso, e le state school gratuite che però hanno una qualità incommensurabilmente più bassa. Sicuramente ciò che ne esce bene da questo libro è il livello della qualità sia delle scuole che del sistema sanitario del nostro Paese che vengono purtroppo degradati dall’atavica inefficienza di ogni servizio pubblico italiano.

Il divario invece fra ricchi e poveri è qualcosa che sta diventando paradossale per questa metropoli, con una speculazione edilizia ingiustificabile e drogata dall’arrivo sulle rive del Tamigi dei ricchi emiri e dagli oligarchi delle ex repubbliche sovietiche, che hanno ormai contaminato con i loro soldi il mercato immobiliare rendendo proibitivo non soltanto l’acquisto di un alloggio ma anche la permanenza dignitosa anche in affitto di chi vuol provarci. Franceschini dedica un breve capitolo proprio a quelli che da Londra se ne sono andati, stanchi della frenesia di una vita sempre accelerata, sempre pianificata e troppo dispendiosa.

C’è un’ultima cosa che mi ha scosso leggendo le storie, specialmente dei più giovani: sono spesso soli. Bambini ce ne sono pochi e il prezzo che devi pagare per il successo, la carriera e i soldi è la possibilità di costruirti una famiglia, incontrare l’altra metà della mela e generare la tua successione. E quando i bambini ci sono spesso sono allevati da nanny – le tate – che educano i figli al posto dei genitori, visto che conciliare famiglia e lavoro, in una città in larga misura workaholic, diventa quasi impossibile. A volte mi chiedo se durante il weekend i figli riconoscano quegli adulti che si trovano per casa e li portano al picnic al parco.

Sullo sfondo di questo libro c’è ovviamente lei, la città, Londra: da Camden, il quartiere ormai di moda pieno di artisti, a Chiswick, che ricordo come la sonnolenta zona a ridosso del Tamigi dove abitava un mio amico di vecchissima data, Paolo, che anche lui si trasferì su quelle rive agli inizi del terzo millennio e con il quale trascorsi una piacevole cena raccontandogli i miei progetti. C’è Canary Wharf che vi ho raccontato prima, c’è la City, il centro finanziario più importante del pianeta. C’è Kensington, c’è Chelsea, c’è Hackney, il “mio” quartiere.

Il mio legame con Londra, come ho raccontato nel mio libro fotografico Londinium, è cominciato ben prima che io nascessi, nel 1969, quando mia mamma venne operata al cuore proprio lì. E Londra continua ancora oggi a chiamarmi: qualche mese fa con la mostra a San Lorenzo (Roma) del libro “Da qualche parte del mondo“, di Chiara Cecilia Santamaria la blogger di “Ma che davvero?” che mi raccontava come persino corsi di filosofia venissero organizzati lassù per chi avesse voglia di ampliare i propri studi. E per me, ingegnere pentito, giornalista mancato e filosofo in pectore, era come cadere in una specie di tentazione!

Adesso è stato il turno del libro di Enrico Franceschini, con una città italiana, di italiani, in mezzo a tutta l’umanità: attraverso i suoi racconti ho imparato tanti consigli e compreso quali siano stati i miei errori principali di un lustro fa. Fra poco più di un mese tornerò a Londra: stavolta non per cercare fortuna nel mondo del lavoro ma soltanto per nuotare all’Aquatics Centre in occasione dei Campionati Europei di Nuoto Masters. Avrò anche 36 ore circa per qualche altro scatto in giro per la città prima di tuffarmi – letteralmente! – nella piscina delle Olimpiadi del 2012. Chissà se questa città anche stavolta mi sedurrà o se invece mi lascerà andare via con i miei ricordi di gioventù, le mie paure di adulto e la consapevolezza che un po’ londoner lo sono stato anche io.

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