Il ritorno del partito di massa

 In POLITICA
C/mk_dropcaps]hi ha qualche capello bianco in testa come me (in verità, a 44 anni, fortunatamente ne ho pochi!) ricorderà benissimo i manifesti delle campagne elettorali della cosiddetta Prima Repubblica. Spiccavano fra essi quelli del PCI (e in parte del PSI) perché non invitavano a esprimere preferenze: “VOTA COMUNISTA”, si leggeva sotto il simbolo con la “Falce e Martello” disegnato da Renato Guttuso, così come “VOTA SOCIALISTA”, accanto al faccione di Bettino Craxi che teneva in mano un garofano rosso. In Italia per quaranta anni abbiamo conosciuto i “partiti di massa”: la Democrazia Cristiana, che poteva contare sul forte appoggio della Chiesa e quindi delle parrocchie; il Partito Comunista Italiano, con la sua capillare organizzazione territoriale, il Partito Socialista Italiano, il Partito Repubblicano Italiano e così via. Erano partiti che avevano al proprio interno leadership molto forti ma esercitate dentro una struttura organizzativa complessa, efficiente e soprattutto efficace quando si trattava di affrontare le campagne elettorali.

I comizi dei leader, nazionali, regionali, locali, erano eventi importantissimi: non c’era ovviamente l’enorme numero di talk show che c’è adesso in TV (c’erano soltanto le tribune politiche), non c’era internet e ancora i giornali tiravano un numero di copie consistenti per formare e influenzare l’opinione pubblica. Erano partiti che si rivolgevano al popolo, lo cercavano, lo abbracciavano, spesso lo seducevano: le campagne elettorali erano organizzate in maniera impeccabile. Poi la crisi dei partiti, la loro bulimia da un lato e la nostra apatia civica dall’altro hanno preso il sopravvento e a poco a poco, in un processo lento ma inesorabile, ci siamo mangiati quanto di buono i nostri nonni avevano costruito dopo il secondo conflitto mondiale.

Abbiamo pensato che i partiti dovessero essere liquidi oppure non dovessero esserci affatto. Abbiamo sostituito la Politica con la Comunicazione (prima solo televisiva adesso anche social): il racconto, lo storytelling come si usa dire ora, ha preso il sopravvento sulla mediazione, sulla rappresentazione delle istanze sociali che – a prescindere dalle storie raccontate – ovviamente permangono, mica si dissolvono, e chiedono sempre e comunque interlocutori. E sono questi ultimi che sono cambiati perché chi lo è stato prima, si è ora come avvitato su se stesso, si è voltato dall’altra parte, pensando che bastasse un sapiente utilizzo delle regie televisive prima (aiutato magari dal possesso dei network televisivi che non guastava mai) o degli hashtag poi, e non accorgendosi invece quale fosse «la situazione di crisi sociale che in questi anni si è sentita in Europa, Italia e nelle grandi città. Una crisi sociale che si riflette anche nella minore partecipazione al voto». Sono queste le parole spese per commentare i risultati da Piero Fassino, sindaco uscente di Torino e in testa dopo il primo turno, che è l’ultimo segretario dell’ultimo partito strutturato, i Democratici di Sinistra, erede del PCI e del successivo PDS, nato dopo la svolta della Bolognina.

Ed è guardando la puntata speciale di Gazebo (dal minuto 53 circa) che una delle possibili chiavi di lettura la possiamo scovare: osservate infatti la differenza fra la chiusura della campagna elettorale a Roma di Virginia Raggi con il Movimento Cinque Stelle e la passeggiata elettorale di qualche giorno prima della candidata napoletana del PD, la renziana Valeria Valente. Nel primo caso trovate un partito (vi prego, cari grillini, chiamatevi così perché non c’è nulla di cui vergognarsi in quella parola!) strutturato e organizzato, che comunicava la sua presenza nel territorio e soprattutto la capacità di ascoltare e farsi rappresentati di talune istanze sociali assai concrete. Andate poi un po’ più avanti nel video e esaminate la “passeggiata” della Valente: non solo non se la fila praticamente nessuno – forse c’è chi persino nemmeno la riconosce come la candidata sindaco – ma quella passeggiata sembra un giro per negozi con un’amica, non un’iniziativa elettorale. In altri tempi – lo osserveranno in trasmissione anche Diego Bianchi e Marco Damilano – la passeggiata sarebbe stata “costruita” con un progressivo bagno di folla, con le strette di mano, con i militanti che avrebbero “indicato” l’evento a passanti e negozianti, così da catturare il target di qualunque campagna elettorale: l’elettore.

Inoltre piano piano i grillini hanno “rottamato” il loro mantra più celebre, “uno vale uno”, e hanno scovato alcune candidate molto più competenti rispetto al disastro rappresentato all’inizio del loro exploit di inizio legislatura con il duo Crimi-Lombardi. Infine hanno accettato la sfida di Grillo, che si è defilato per la prima volta in una campagna elettorale, e nonostante qualche errore folle (la questione Pizzarotti è tanto assurda quanto pazzesca, in piena campagna elettorale!) hanno portato avanti con determinazione le sfide dove erano avvantaggiati: Roma e Torino.

In una città come Roma, che per ovvie ragioni mi interessa maggiormente, il risultato è che Virginia Raggi ha un blocco enorme di vantaggio al primo turno, un partito fortissimo alle spalle (praticamente i voti al candidato e quelli alla lista coincidono, mentre il PD ha perso 70.000 voti rispetto a tre anni fa) e soprattutto ha dalla sua parte la “geografia”: il fatto che Giachetti e il PD abbiano “vinto” soltanto nel I e nel II municipio, cioè nei quartieri più benestanti della Capitale, significa che il Partito Democratico ormai non riesce più a intercettare quelle istanze sociali delle periferie essendosi da tempo “imborghesito”, ridotto a partito radical-chic non in grado (o meglio non ritenuto di esserlo dall’elettorato) di catturare le istanze del ceto più sofferente e rappresentare quelle problematiche che la crisi economico-sociale sta portando con sé ormai dal 2008. A nulla è valsa la buona volontà di un candidato mediocre ma generoso come Giachetti, che ha girato come una trottola ma del quale in rete già circolavano clip nelle quali si autodefiniva «non in grado di fare il sindaco», così come non è stata sufficiente la dedizione alla ditta dell’ex segretario Bersani, insultato in rete a più non posso dai renziani della prima ora e dal loro megafono sul Corriere Maria Teresa Meli, che però ha girato lo Stivale (Roma inclusa) per sostenere candidati del suo partito anche quando questi rappresentavano le mani che avevano impugnato qualche coltello ben piantato nella sua stessa schiena tre anni fa.

Paradossalmente il Movimento Cinque Stelle si è mostrato più “partito” di quanto non sia più percepito dalle masse lo stesso PD, identificato più come un comitato elettorale (se non d’affari) attorno alla figura del suo segretario piuttosto che una comunità politica, portatrice di istanze che provengono dai territori e dalle classi sociali più sofferenti della società. Ed è altrettanto paradossale che una comunità che invece nasce in rete, che fa della rete una sorta di non-luogo nel quale tutti si incontrano, diventi a poco a poco l’unico partito strutturato e organizzato fisicamente mentre i democratici si riducono a cloni da tastiera che ripetono a memoria il verbo delle direzioni di partito, diffuso in streaming (mentre quelli grillini, di streaming, ormai non se ne vedono più!) e commentato su twitter.

Se il PD non comprende che deve ricucire proprio con il tessuto sociale che non è più in grado di rappresentare allora è destinato progressivamente a derubricarsi a un ennesimo esperimento politico fallimentare e non l’architrave istituzionale dei progressisti, ragione per la quale era nato. Roma o Torino sopravviveranno anche a cinque anni di Virginia Raggi o di Chiara Appendino; l’Italia ce la farà pure a sfangare cinque anni di Di Maio premier: ma quando una società si astiene dal voto per il 50% circa, persino quando c’è da scegliere l’istituzione più vicina a sé qual è un sindaco, allora vuol dire che essa è profondamente malata e che le cure che si sono susseguite finora, a colpi di riduzione dei diritti dei più deboli e di contrazioni progressive di welfare state con la conseguente divaricazione della forbice sociale, non sono servite a nulla, con una Politica che non sta fornendo tutte le risposte alle domande sociali. E quando le forze politiche si chiudono in se stesse e diventano autoreferenziali come ormai è diventato il PD, il problema non è soltanto interno al Nazareno, così come la crisi della destra (che comunque ancora esiste e Milano – città sempre avanti – costituisce un esperimento mica male per la successione a Berlusconi) non è un problema di Palazzo Grazioli: è invece qualcosa che riguarda tutti e che non può essere affrontato con la strategia del piccolo cabotaggio.

Serve una nave grossa e robusta, con un comandante all’altezza dei marosi che la società deve attraversare.

 

p.s Alcune considerazioni sulle strategie del Nazareno (spero siano ancora lecite senza subire l’ennesima etichetta di gufo antirenziano):
1) Alleanza con ALA: sembra che i timori espressi a suo tempo fossero fondati. Il PD perde più voti di quanti ne guadagna. Conviene? Naturalmente la crisi del PD a livello locale non è cominciata con Matteo Renzi sebbene con lui si stia aggravando, portando il partito a perdere anche in aree dove non aveva mai perso (Testaccio e Garbatella, solo per fare i nomi più famosi dei quartieri capitolini). Eppure molti sostenevano che l’ex sindaco di Firenze fosse necessario perché “abbiamo bisogno di vincere”: ecco forse la questione era un tantino più complessa dell’inseguimento dei moderati (che poi chi sarebbero ‘sti benedetti moderati? Berlusconi?) e della sostituzione algebrica dei voti a sinistra con i voti al centro.
2) Tripolarismo: pare che finalmente si sia preso atto che l’Italia è tripolare (benvenuti! Peccato per tre anni molti hanno rotto i cabbasisi con il “rigore a porta vuota” sbagliato da Bersani e con la “non vittoria”, peraltro frase mai effettivamente pronunciata dall’ex segretario) e quando va bene chi prende più voti becca il 30% (dei votanti, lascio a voi il conto rispetto agli aventi diritto). Forse è il caso di interrogarsi sul sistema elettorale per le Politiche. Che con un 15% del corpo elettorale becchi il 55% dei seggi non mi sembra propriamente sano, democraticamente parlando.
3) Italicum: le istanze territoriali e sociali si rappresentano dialogando con i territori e non fra i soliti noti in TV. Forse i finti e enormi collegi plurinominali, con le candidature plurime, sarebbe meglio fossero sostituiti con uninominali (possibilmente a doppio turno), con un deputato che avrà il suo bel da fare per confermarsi la cadreghina a Montecitorio.
4) Ballottaggi: visti i risultati di Roma ci si chiede se il secondo turno non debba essere rivisto. A Roma i due candidati non rappresentano nemmeno il 60% dei votanti. Mica l’ha ordinato il medico che al ballottaggio vadano i primi due! In Francia – patria del doppio turno – passano tutti i candidati sopra il 12,5%.
5) Politicizzazione del voto: è vero, si votano i sindaci, ma da che mondo è mondo le elezioni servono anche a mandare messaggi al Capo del Governo (e al partito di maggioranza relativa), che peraltro c’è dentro mani e piedi: basti pensare che a Roma non si sarebbe dovuto votare mica quest’anno ma lo si sta facendo perché il segretario del PD ha imposto le dimissioni forzate dal notaio da parte dei propri consiglieri, con un bel accordo con Marchini. Per non parlare del linguaggio nei confronti di chi osava opporsi politicamente ad alcuni provvedimenti e talune scelte politiche. Magari un po’ di prudenza in più con Marino a ottobre e una visione più unitaria del proprio partito e forse la miccia Raggi si sarebbe consumata da sola. Ora è un po’ tardi per chiedere indietro il voto a chi è stato bistrattato, persino dal candidato sindaco («È il senso della mia candidatura: rompere con una parte del PD e lasciarmela alle spalle»). Per questa volta è andata così: alla prossima vediamo, Matteo.

 

immagine in cima al post da internet

Recommended Posts
CONTATTAMI

Per qualunque informazione scrivimi e ti risponderò al più presto possibile.

Not readable? Change text. captcha txt
0
VINCENZOPISTORIO.COM