La società pendolare

 In POLITICA
Terminato il periodo di dolore, elaborato il lutto collettivo e nazionale per le vittime del disastro ferroviario in Puglia, sarà necessario riflettere sul tipo di sistema economico e sociale che abbiamo costruito. Dopo la fine del comunismo di matrice sovietica, dopo la conversione all’economia di mercato di quello di stampo cinese, mentre diviene sempre più assodato che la via al socialismo reale era stata una colossale utopia, siamo ormai di fronte a un bivio storico e forse la campagna presidenziale statunitense, con il successo mediatico – seppur sconfitto nei voti – di Bernie Sanders, ha portato questo di buono: cosa ne dobbiamo fare del capitalismo, anzi di questo capitalismo?

Ieri, con i corpi delle vittime ancora caldi e i pugliesi che si riversavano negli ospedali per le donazioni di sangue onde evitare che il numero dei morti crescesse ancora, è divampata la polemica del binario unico, degli scambi “manuali”, delle infrastrutture spesso inesistenti fuori dalle aree cosiddette strategiche del Paese, anzi di tutti i paesi tecnologicamente avanzati. Perché a dispetto della vulgata preponderante, che ovviamente trova terreno fertile nel nostro Meridione, punto di accumulazione di tutte le inefficienze dello Stivale, il problema del divario fra settori della società sempre più distanti fra loro non è soltanto italiano, né soltanto del sud: è ormai un problema mondiale, sia in occidente che in oriente.

Le infrastrutture ferroviarie spesso rappresentano proprio la cartina di tornasole di come una società pensa di riequilibrare questi divari: mentre fra Roma e Milano viaggiamo in meno di tre ore, lo stesso tempo ci si impiega per andare da Catania a Palermo e questo “risultato” è stato possibile soltanto dopo l’interruzione dell’autostrada A19 che ha tagliato in due la nostra isola maggiore a causa del crollo del viadotto. Ma sia la tratta ad alta velocità fra le due “capitali” italiane che quella a velocità bassa fra le due città siciliane, sono comunque segmenti destinati più al traffico business per trasferte più o meno lunghe di lavoro. L’aspetto più inquietante delle ferrovie italiane è invece quello che riguarda i treni regionali, quelli dei pendolari, come i convogli che ieri si sono scontrati. Treni spesso più vicini ai carri bestiame che a moderni convogli per il trasporto delle persone.

Certo, in quella tratta fra Andria e Corato si sono sommate due criticità: il binario unico (non si pensi che sia prerogativa solo meridionale, l’unicità della linea ferrata. Da Terni a Spoleto – tanto per farvi un esempio a me vicino – c’è un breve tratto a binario unico che spesso è responsabile di enormi ritardi dei pendolari umbri verso la Capitale) e il controllo manuale di una breve tratta (un’autentica beffa, questa, perché da quanto si è capito il treno montava equipaggiamenti di sicurezza all’avanguardia che però risultano inutili se la linea non li “accompagna” con l’interfaccia corretta). Ma c’è un altro aspetto su cui riflettere: che tipo di società è quella che realizza da un lato modernissime ferrovie ad alta velocità mentre i trasporti locali rimangono a livelli di inizio del XX secolo?

A mio avviso questo è in realtà il prodotto del capitalismo iperfinanziario che domina ormai dopo la scomparsa del socialismo reale: con l’evaporazione del Patto di Varsavia, è venuta a mancare – nelle società occidentali – la ragione di una qualche compensazione “socialista” dell’economia, arma di riequilibrio per evitare la tentazione o quanto meno lo spauracchio delle società comuniste e in Italia, con il più forte partito comunista europeo, tali ragioni sono state anche più diffuse rispetto al resto del continente (la qualità del nostro sistema sanitario nazionale è indiscutibile ed è un servizio universale).

Mi scuserete per il politicamente scorretto ma una tratta come la Roma-Milano è economicamente conveniente, una Roma-Ancona (quella del tratto umbro di cui sopra) non molto, quella fra Roma e Viterbo … figuratevi! Su un Roma-Milano un passeggero spende una determinata e spesso consistente cifra, ed è l’azienda di questo lavoratore a pagare, la quale non bada certo a spese (i costi si scaricheranno poi nelle commesse). Viceversa, i pendolari – dal punto di vista dei gestori delle linee ferroviari – sostengono costi irrisori (d’altronde come potrebbero pagare maggiormente gli abbonamenti visto che i salari diminuiscono) che non giustificano – sempre a loro avviso – ammodernamenti delle linee. Insomma il mercato per sua natura deve avere ritorni economici e si investe lì dove si pensa ci possano essere (se come me viaggiate da Roma al sud in automobile fate caso a come cambia il livello qualitativo dell’autostrada, passando dalla A1 e arrivando a quella siciliana. Sulla A18 in direzione Catania, a pagamento, si ha una qualità della sede stradale che non si riscontra nemmeno nelle peggiori strade statali del nord Italia).

Ecco che quindi siamo al bivio: questo capitalismo, dominato dalla finanza, sta ormai drammaticamente dispiegando i suoi effetti, divaricando sempre di più la distanza fra ricchi e poveri, fra chi è più vicino al sole e chi invece si trova a vivere di raggi riflessi. E per paradosso persino fra i più poveri sta scoppiando la guerra di sopravvivenza, in una sorta di darwinismo sociale pericolosissimo per il quieto vivere di una società. Ecco che si pone la domanda: possiamo lasciare al denaro, a Wall Street, a questo Leviatano che è la Finanza, il compito di regolare da sé anche il mercato dei servizi essenziali e universali? Questo terribile disastro ferroviario occorso in Puglia, per l’enorme eco mediatica che si è sviluppata in tutto il mondo, è la tremenda rappresentazione fra ricchezza e povertà, quest’ultima non sempre di denaro ma di mezzi e possibilità: può il capitalismo regolare se stesso come si è ritenuto dagli anni novanta in poi con le politiche liberiste di destra e neoliberiste di sinistra (la celebre Terza Via di Clinton e Blair)?

È un interrogativo che si stanno ponendo tutti i pensatoi politici nel mondo, da destra e da sinistra: Theresa May, nuovo Primo Ministro britannico dopo le dimissioni di Cameron successive al Brexit, nel suo discorso di accettazione della candidatura per i Tories, ha appunto parlato di “riequilibrio” degli effetti della globalizzazione, mentre in America Hillary Clinton, in piena campagna per la Casa Bianca, ha incassato l’endorsement del suo rivale Sanders aprendo a quanto più a cuore stava al senatore del Vermont.

Perché il problema è fondamentalmente questo: il capitalismo, per quanto faccia schifo, è sicuramente il miglior sistema economico che conosciamo. L’economia di mercato è certamente quella che può realizzare benefici per la maggior parte degli esseri umani: tuttavia ha un suo lato oscuro, un suo demone che la società deve imparare a fronteggiare e a dominare. Per fare ciò serve una visione politica, un nuovo pensiero politico e filosofico che si faccia carico di tali storture. E ciò coinvolge sia la destra liberale, con le classiche risposte riassumibili in una sorta di “elemosina sociale”; sia la sinistra riformatrice, che però deve farsi carico di altro. Perché se è vero che essere di sinistra significhi far sì che tutti abbiano uguali condizioni di partenza, è altrettanto vero che ciò non soltanto non è sufficiente, non solo non è realistico ma che nell’odierna società è di fatto impossibile e la prova sta nel fatto che il cosiddetto “ascensore sociale” non soltanto è fermo ma stavolta rischia di cominciare a tornare giù. Compito quindi di una sinistra riformatrice è quello di correggere il mercato, occupandosi di chi rimane indietro, di chi non ce la fa, muovendo mari e monti affinché possano essere loro a fare un passo più avanti e non si faccia arretrare chi sta davanti (vedi legislazioni come la Loi du Travail in Francia).

Insomma i pendolari non hanno bisogno di alta velocità per raggiungere il loro posto di lavoro, la loro scuola o la loro facoltà: chiedono semplicemente che vi possano arrivare in tempi decenti, possibilmente in condizioni fisiche ottimali per poter lavorare o apprendere, e – ovviamente – farlo sani e salvi. E questo è il compito che attende la politica, in una società nella quale i “pendolari” – non soltanto quelli ferroviari ma quelli direi della “vita” – stanno sempre più aumentando con il crescere della complessità della società: salvaguardare la vita, la dignità e il lavoro di quelli che il mercato tenderebbe per sua natura a emarginare ai bordi delle periferie fisiche e sociali.

E soltanto gli investimenti pubblici – in ogni settore, dalle infrastrutture alla sanità – possono correggere tale emarginazione, provando a ridurne gli effetti al più basso numero possibile di cittadini. Una sfida che dopo ieri abbiamo un motivo in più per intraprendere e vincere: lo dobbiamo a quelle povere vittime che hanno perso la vita sì per un errore umano ma anche per le storture di un mondo che tutti nel passato abbiamo contribuito a costruire.

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