I diritti della Bestia
Il giudice palermitano è stato – anzi è ancora, perché come sostenevano lui e il suo amico Giovanni le loro idee non moriranno mai ma continuano a camminare sulle gambe di chi ne continua la divulgazione – un immenso uomo delle istituzioni. Un uomo che ha servito lo Stato – cioè noi tutti – fino all’estremo sacrificio, avendo come stella polare soltanto la Costituzione italiana e le leggi di questo martoriato paese.
E questo paese non dovrebbe mai venir meno al suo essere uno Stato di Diritto.
In uno Stato di Diritto anche il peggiore dei detenuti, fosse anche Hitler, avrebbe il diritto di essere trattato da essere umano a prescindere dal fatto che questi si sia o meno pentito degli orrendi crimini che ha commesso. La sentenza della Corte di Cassazione dice proprio questo: anche Totò Riina ha diritto a una morte dignitosa. Questo gli apre le porte del carcere, come hanno scritto i giornali? Non è detto.
La Suprema Corte non entra nel merito della misura di custodia, né potrebbe: come dovrebbe essere noto anche a un bambino delle elementari, l’ultimo grado di giudizio non è di merito ma di principio. E il fatto che la massima magistratura nazionale ci ricordi che siamo uno stato che assicura i diritti a tutti dovrebbe invece rassicurarci. Stupisce quindi che l’avvocato Galasso, uno che ha dedicato l’intera sua vita professionale a difendere le parti civili nei processi di mafia, non faccia questa distinzione nel corso della sua intervista al Fatto e metta il mancato pentimento del capo di Cosa Nostra come aggravante.
Il trattamento umanitario di un qualunque detenuto non può infatti essere funzione del suo grado di pentimento: in uno stato di diritto lo Stato non si vendica, non usa il medesimo metro di giudizio che userebbe un criminale nei confronti delle proprie vittime, altrimenti tortura e pena capitale sarebbero previsti nel nostro ordinamento. Ecco perché è così complicato giudicare e applicare una pena: è perfettamente normale e umano che le vittime di un barbaro assassino come Riina provino desiderio di vendetta. «Mio padre non ha ricevuto la pietà che adesso si offre a lui» – sostiene Rita Dalla Chiesa, figlia del prefetto di Palermo ucciso dalla Mafia sempre su ordine di Riina. Sono ragionevolmente certo, tuttavia, che il padre non avrebbe mai preteso che lo Stato non provasse pietà umana per la bestia facendosi bestia esso stesso.
Siamo così tanto intrisi di una religiosità ancora di stampo medievale che continuiamo a confondere il reato con il peccato, la pena con la punizione. E forse proprio questa confusione di sentimenti, fa sì che non comprendiamo che senza uno stato di diritto pieno non ci saranno mai pieni diritti per tutti.
Ieri ho letto qualche battuta sul fatto che per Riina i giudici di Cassazione ricordano il diritto a una morte dignitosa mentre per DJ Fabo (e altri prima di lui e sicuramente ve ne saranno tanti dopo di lui) tale diritto è negato: nello stato confusionale nel quale versa il nostro paese, l’opinione pubblica non può che essere a sua volta confusa, non riuscendo più a distinguere le responsabilità. Nel caso di Riina la Cassazione si pronuncia di fronte a un ricorso, interpretando e applicando le leggi. Nel caso dello sventurato deejay a mancare sono proprio le leggi e le responsabilità sono di un legislatore anch’esso fermo al clericalismo medievale.
Restano ovviamente molti interrogativi sulla tempistica di questo ricorso e sulla sentenza della Suprema Corte pronunciata qualche mese fa e soltanto ora lasciata circolare: rimangono tutte le perplessità che il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, ha elencato stamane con la sua solita puntigliosità.
Ma adesso è compito dei giudici di sorveglianza ponderare e bilanciare il diritto del detenuto con quello delle vittime e dei loro parenti, che hanno anche loro ogni ragione di pretendere che non si manifesti nessun trattamento di favore all’uomo responsabile di quegli orrendi massacri: dovranno comprendere se le condizioni di salute, fisica e mentale, di Toto ‘u curtu siano compatibili con la detenzione (cioè è ancora un boss in grado di comandare i suoi picciotti) o con gli arresti ospedalieri (come avvenne per Bernardo Provenzano) oppure quell’uomo allettato non è più il Capo dei Capi di Cosa Nostra ma soltanto l’involucro di una vita terribile e nefanda che vola via e che quindi può essere mandato a casa a spirare l’ultimo respiro.
p.s. Condivido le virgole di questo post di Alessandro Gilioli
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